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Un’eredità da riconquistare

Per gentile concessione dell’autore, Giuliano Volpe, professore ordinario di Archeologia presso l’Università di Foggia e  Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali e Paesaggistici del Mibact, pubblichiamo di seguito il suo contributo al volume, edito da Maggioli Editore, “Cluster in progress. La Tecnologia dell’architettura in rete per l’innovazione”:

Mai avrei pensato, riflettendo su temi relativi al patrimonio culturale, di dover ricorrere alla psicanalisi. Considerazioni ispirate dalla scienza di Freud e Jung non sono nuove nel campo dell’archeologia e, in generale, dei beni culturali. Il volume di Massimo Recalcati (Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, 2013) mi ha portato a riflettere ancora sul concetto di eredità culturale, trovando interessanti analogie con un mio libro recente (Patrimonio al futuro, 2015) e soprattutto con i principi della Convenzione di Faro (Stce n. 199 del 27 ottobre 2005, sottoscritta dall’Italia il 27 febbraio 2013).

Tale importante e innovativo documento introduce, infatti, un concetto ampio e dinamico di “eredità culturale” (“un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione”, art. 2 a) e di “comunità di eredità” (“un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future”, art. 2 b). Una definizione perfettamente coerente con una visione olistica del patrimonio culturale e rivoluzionaria, se comparata alla concezione statica e proprietaria da noi a lungo prevalente.

Profonde solo le analogie con quanto scrive Recalcati che, citando Freud, che a sua volta riprendeva un celebre detto di Goethe (“ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero”), sottolinea che “l’eredità non è l’appropriazione di una rendita, ma è una riconquista sempre in corso. Ereditare coincide allora con l’esistere stesso, con la soggettivazione, mai compiuta una volta per tutte, della nostra esistenza. Noi non siamo altro che l’insieme stratificato di tutte le tracce, le impressioni, le parole, i significanti che provenendo dall’Altro ci hanno costituito”. Non ci potrebbe essere immagine migliore per descrivere la complessità stratigrafica della nostra eredità culturale, presente nei paesaggi attuali, nelle campagne, nelle città, nel patrimonio materiale e immateriale, nelle comunità locali. Al contrario, la considerazione del patrimonio culturale come un “valore in sé”, immobile e immodificabile, ha finito per affermarne una visione statica: un’eredità ricevuta dai nostri padri, da curare, e da trasmettere ai nostri figli, attribuendo al presente un ruolo di mera ricezione e trasmissione. L’eredità culturale, al contrario, andrebbe riconquistata, conosciuta, apprezzata, arricchita di nuovi significati. Cioè vissuta, con consapevolezza e con responsabilità.

Invece, si sono creati artificiosi e inattuali conflitti tra tutela e valorizzazione, male interpretando lo stesso articolo 9 della Costituzione, pure continuamente chiamato in causa, dimenticando, cioè, che esso attribuisce alla Repubblica (non al solo Stato), cioè all’intera comunità nazionale, il compito della tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico ma anche quello dello sviluppo della cultura e della ricerca. In tal modo si è manifestato uno dei fallimenti che la psicoanalisi – come ci ricorda Recalcati – definisce “di destra”, assimilando “l’eredità alla mera ripetizione di ciò che è già stato. Se ereditare è un movimento di riconquista […] l’ereditare non può ridursi a essere una semplice ripetizione del passato, un movimento passivo di assorbimento di ciò che è già stato.

Ereditare non è la riproduzione di quello che è già avvenuto. Anzi, la ripetizione del passato, l’eccesso di identificazione, di incollamento, di alienazione, il suo assorbimento passivo e la sua venerazione sono modi in cui l’atto dell’ereditare fallisce. Per questo Freud sottolinea che l’eredità è innanzitutto una decisione del soggetto, un movimento in avanti di ‘riconquista’”. Uno sguardo rivolto, cioè, al presente e al futuro, e non solo immobilizzato nel passato.

Allo stesso modo il testo di Faro considera il diritto, individuale e collettivo, “a trarre beneficio dall’eredità culturale e a contribuire al suo arricchimento” (art. 4 a), e impegna a “mettere in luce il valore dell’eredità culturale attraverso la sua identificazione, studio, interpretazione, protezione, conservazione e presentazione” (art . 5 b). Per tale motivo si sottolinea la necessità che l’eredità culturale sia finalizzata all’arricchimento dei “processi di sviluppo economico, politico, sociale e culturale e di pianificazione dell’uso del territorio” (art. 8 a). Lo sviluppo economico (o meglio nuove forme di sviluppo economico) e la creazione di opportunità di lavoro qualificato diventano così obiettivi prioritari.

La Convenzione di Faro è rivoluzionaria innanzitutto perché ribalta il punto di vista: non più solo quello degli specialisti e dei funzionari della tutela, ma anche quello delle comunità locali, dei cittadini, degli utenti, sottolineando il valore della partecipazione democratica della cittadinanza “al processo di identificazione, studio, interpretazione, protezione, conservazione e presentazione dell’eredità culturale” nonché “alla riflessione e al dibattito pubblico sulle opportunità e sulle sfide che l’eredità culturale rappresenta” (art. 12 a-b). Protagonisti sono i cittadini, per cui bisogna “promuovere azioni per migliorare l’accesso all’eredità culturale, in particolare per i giovani e le persone svantaggiate, al fine di aumentare la consapevolezza sul suo valore, sulla necessità di conservarlo e preservarlo e sui benefici che ne possono derivare” (art. 12 c). Una vera rivoluzione copernicana, insomma, nel campo dei beni culturali, se pensiamo ai nostri musei, parchi archeologici e luoghi della cultura, ancora troppo spesso inospitali, esclusivi, respingenti, nei quali il visitatore si sente inadeguato e spaesato. Luoghi sacralizzati da una casta di religiosi dei beni culturali.

Viene alla mente, a tale proposito, quanto detto recentemente da Papa Francesco (9 settembre 2015): “Una Chiesa davvero secondo il Vangelo non può che avere la forma di una casa accogliente, con le porte aperte, sempre. Le chiese, le parrocchie, le istituzioni, con le porte chiuse non si devono chiamare chiese, si devono chiamare musei”. Non potrebbero esserci parole più nette e chiare per indicare l’abissale distanza che separa, anche nell’immaginario collettivo, un museo da un luogo aperto, accogliente, piacevole, divertente.