Flavia Piccoli Nardelli è intervenuta alla Camera nella discussine generale sulla proposta di legge Golinelli ed altri “Istituzione della Giornata nazionale della memoria e del sacrificio alpino” (A.C. 622-A), sostenendo che «la celebrazione del sacrificio e della memoria degli alpini possono diventare un caposaldo nella valorizzazione dei valori fondanti della Repubblica, anche se per commemorare la memoria degli alpini, sarebbe stato più opportuno che non si fosse scelta la data di una disastrosa ritirata seguita a una guerra di aggressione che gli alpini sicuramente non avevano voluto».
«Il valore degli alpini, in armi e in congedo, che devono passare alle generazioni future, sono legati, soprattutto alla propria identità di buoni cittadini, in guerra e in pace, di difensori del territorio nazionale in armi nelle calamità e di orgogliosi figli della Repubblica».
Quindi, «perché non scegliere allora una data diversa, come ad esempio quella del 15 ottobre, che celebra con orgoglio la fondazione del Corpo degli alpini, proprio per mettere in rilievo l’importanza, il valore e l’eroismo dei nostri alpini?»
Di seguito la versione integrale dell’intervento di Flavia Piccoli Nardelli nella discussione della proposta di legge sull’“Istituzione della Giornata nazionale della memoria e del sacrificio alpino”.
RESOCONTO STENOGRAFICO DELL’ASSEMBLEA
SEDUTA N. 183 DI LUNEDÌ 3 GIUGNO 2019
Proposta di legge: Golinelli ed altri: Istituzione della Giornata nazionale della memoria e del sacrificio alpino (A.C. 622-A) (Discussione)
FLAVIA PICCOLI NARDELLI (PD). Presidente, colleghi, mi si è detto che sarebbero stati ben accetti non solo gli interventi di chi, come molti dei presenti, ha fatto parte del Corpo degli alpini, ma anche di chi si limita a rappresentare un padre o un marito alpino, come nel mio caso. Intervengo in realtà, Presidente, anche in ragione di un lungo impegno in Commissione cultura in favore di un necessario rinnovamento delle strategie didattiche legate alla memoria e al valore dell’insegnamento della storia. Per questo mi preme ricordare insieme a tutti voi che il Corpo degli alpini rappresenta davvero un unicum nel mondo militare, non solo italiano ed europeo ma internazionale, per le sue caratteristiche peculiari.
È il primo corpo armato fondato dal nuovo Stato nazionale italiano (è stata ricordata prima la data di fondazione, il 1872), e che non discende in alcun modo dagli eserciti preunitari; e per molte vie diverse riesce fin dalle sue origini a conquistarsi una vastissima popolarità, finendo per essere identificato come il più affidabile difensore delle porte d’Italia, come diceva De Amicis. È, inoltre, l’unica specialità dell’Esercito italiano che preveda sin dalle origini un reclutamento di leva territoriale e non nazionale. È infine l’unico corpo delle Forze armate italiane che è riuscito a costruire nel tempo uno stretto rapporto con la società civile, tanto che si può tranquillamente affermare che alpini in servizio e alpini in congedo abbiano formato una comunità integrata che non ha uguali nel mondo.
La sua fondazione, lo ricordate, si colloca in un contesto difficile per il giovane Stato unitario: il nuovo Regno d’Italia ha imposto la coscrizione obbligatoria su tutto il territorio nazionale, incontrando la forte resistenza di molte comunità regionali. D’altra parte le prime prove sul campo di battaglia dell’Esercito nazionale sono disastrose: a Custoza e a Lissa nel 1866 l’Esercito e la Marina vanno incontro a umilianti sconfitte. Per questo la popolarità delle Forze armate è al suo minimo, quando nel 1872 viene fondata la nuova specialità del Corpo degli alpini. E in questa situazione difficile i nuovi soldati, nelle loro caratteristiche uniformi (il cappello con la penna, anche se in fogge diverse, diventerà subito un simbolo distintivo), vengono individuati come protagonisti di una nuova pagina della storia nazionale. Da un lato interpretano al meglio il mito della montagna, che si sta diffondendo rapidamente in quegli anni: l’uomo che vive in un ambiente incontaminato, che cammina sulle vette della montagna e dunque è più vicino a Dio, si adatta a vivere con disciplina, forza e pazienza in un contesto difficile e aspro. Gli alpini che sono reclutati dalle montagne e dalle valli assumono tutte le caratteristiche antropologiche dell’uomo di montagna, e vengono da subito raccontati come coraggiosi e robusti, intrepidi ma anche generosi e pazienti, disciplinati e devoti, tanto a Dio quanto al re e alla patria.
Il reclutamento territoriale fa sì che la simbiosi tra i nuovi soldati e le montagne da cui vengono sia una delle pagine di maggior successo della cultura nazionale italiana: gli alpini diventano un’icona positiva del nuovo Stato. Era stato un esperimento azzardato, in un Paese in cui le élite politiche e militari continuavano a guardare ad ogni forma di concessione al regionalismo come ad una minaccia alla vita dello Stato. Avrebbe scritto pochi anni più tardi il generale Corsi, uno dei più importanti opinionisti in uniforme dell’epoca: “Il montanaro alle armi non era un semplice coscritto come tutti gli altri, un operaio cittadino magari intriso di idee politiche sediziose o un contadino meridionale ansioso di disertare: l’abitante delle Alpi chiamato a servire la patria in armi era, prima ancora che un buon soldato, un uomo buono probo e forte”. Ce lo ricorda Marco Mondini nel suo ultimo libro sugli alpini: Tutti giovani sui vent’anni, è il suo titolo.
E il successo degli alpini cresce, ed è bizzarro che ciò avvenga senza che gli alpini abbiano ancora sparato un colpo; e ancora più bizzarro, se vogliamo, è che il battesimo del fuoco avvenga, come ha ricordato il collega Russo poco fa, non sulle Alpi che sono chiamati a difendere, ma in Africa, nella disastrosa campagna coloniale di conquista in Africa orientale. Ad Adua nel 1896 l’Esercito italiano subisce l’ennesima catastrofica sconfitta; dall’umiliazione della disfatta si salvano solo gli alpini del battaglione d’Africa, che si sacrificano fino all’ultimo per salvare il proprio comandante.
È la prima tappa di una leggenda guerriera che si alimenterà poi con le imprese della grande guerra, dalla conquista del Monte Nero nel 1915 in poi; e della seconda, una via crucis di luoghi e battaglie leggendarie, che fanno degli alpini uno dei corpi più decorati nella storia militare italiana, ma anche uno dei più celebrati all’estero: Nikolaevka è una di queste tappe.
Ma la fama e soprattutto il duraturo affetto popolare per gli alpini non derivano in senso stretto dalle loro glorie marziali, anzi: in molti modi differenti gli alpini sono diventati, già dopo la seconda guerra mondiale, l’icona di un modo differente di essere soldati. Buoni cittadini in armi, patrioti disciplinati e coraggiosi, gli alpini sono l’idealtipo di un soldato pronto a sacrificarsi per difendere i confini nazionali, il suo villaggio, il focolare e la famiglia, un DNA difensivo, evocato dall’inno del Corpo, che ha sposato nei decenni successivi al cataclisma del secondo conflitto mondiale, la vocazione, non disarmata ma pacifica, della Repubblica. In questo DNA rientra anche la capacità di porsi al servizio della comunità nazionale, non solo in armi. Il legame tra alpini in armi e in congedo non si sostanzia solo, Presidente, nei grandi riti di massa – le adunate nazionali sono oggi il più importante rituale spontaneo a carattere patriottico e repubblicano, è stato ricordato prima -, ma anche nell’ideale di servizio, negli interventi in soccorso delle popolazioni civili, che hanno visto gli alpini in prima fila, fin dai decenni in cui non esisteva la Protezione civile. Da questo punto di vista, il disastro del Vajont è una pagina decisiva nell’identità alpina. Si sono affiancati a questo le competenze da Protezione civile, acquisite dai reparti volontari di alpini in congedo. Anche in questo caso un unicum nella storia militare mondiale, di cui la Repubblica può andare fiera.
Anche per questo, la celebrazione del sacrificio e della memoria degli alpini possono diventare un caposaldo nella valorizzazione dei valori fondanti della Repubblica, anche se alcuni di noi avrebbero preferito – per le ragioni che ha ricordato il mio collega ed amico Umberto Buratti, ma anche per le ragioni che hanno ricordato molti dei relatori oggi in Aula – che, a commemorare la memoria degli alpini, non si fosse scelta la conclusione, Presidente, di una disastrosa ritirata seguita – come sappiamo – a una guerra di aggressione che gli alpini sicuramente non avevano voluto.
Noi ricordiamo – perché le abbiamo amate – le pagine di Rigoni Stern, di Bedeschi, di Nuto Revelli, che celebrano l’eroismo e il valore degli alpini, ma i valori più alti che gli alpini, in armi e in congedo, devono passare alle generazioni future sono legati, a mio avviso, soprattutto alla propria identità di buoni cittadini, in guerra e in pace, di difensori del territorio nazionale in armi nelle calamità e di orgogliosi figli della Repubblica.
Noi ricorderemo a scuola, Presidente, il 26 gennaio, per la battaglia di Nicolaevka, ma il 27 gennaio, per convenzione internazionale, si ricorda la Shoah, offrendo ai nostri ragazzi una sintesi tremenda di che cosa è stata la storia del Novecento. Per questo, mi chiedo, colleghi, perché non scegliere allora una data diversa, come ad esempio quella del 15 ottobre, che celebra con orgoglio la fondazione del Corpo degli alpini, proprio per mettere in rilievo l’importanza, il valore e l’eroismo dei nostri alpini?