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16 marzo 1978: il giorno del rapimento di Aldo Moro

Pubblichiamo l’intervista di Fabio Viganò a Flavia Piccoli Nardelli sul caso Moro, rilasciata oggi, 16 marzo 2018, in occasione del 40esimo anniversario del sequestro del presidente della Democrazia Cristiana e dell’eccidio dei cinque uomini della sua scorta. L’intervista è stata pubblicata su bergamonews.it

Flavia Piccoli: “L’Italia del ‘78 ostaggio del terrore”

Parla l’on. Flavia Piccoli Nardelli, già presidente della Commissione Cultura della Camera: “Dubbi? Vorrei fosse analizzato meglio il ruolo di parte del mondo universitario e quello di alcuni attivisti dei movimenti della sinistra extra parlamentare, come Franco Piperno e Lanfranco Pace”

Tanto si è detto e ancora più si è scritto su Aldo Moro. Sul suo sequestro, sulle Brigate Rosse e sulle tensioni politiche di quella stagione. Eppure, a 40 anni dalla strage di Via Fani sentiamo ancora il bisogno di raccontare i fatti, mettere insieme i pezzi della storia e, magari, trovare quelli mancanti. Ne abbiamo parlato con Flavia Piccoli Nardelli, figlia dell’ex Ministro e Segretario della Democrazia Cristiana Flaminio Piccoli, laureata in filosofia e dirigente del settore culturale. Dal 1989 al 2013 è stata segretario generale dell’Istituto Luigi Sturzo.

Lei dov’era quel 16 marzo 1978 e che ricordo ha di quel giorno?
Ero a Roma, a Montemario, in classe. Facevo lezione in una scuola media. Tornai a casa. Abitavo a cinque minuti di distanza da via Fani. Mi preoccupai di andare a prendere i miei figli, uno di sette e uno di tre anni.

Il rapimento di Moro e l’assassinio della sua scorta non vennero per me come un fulmine a ciel sereno. Dalla fine degli anni ’60 il mondo politico, sindacale, giornalistico italiano era quotidianamente massacrato da attentati, da omicidi, da gambizzazioni. Ricordo solo che sono state 84 le vittime delle Brigate Rosse fino al 2003.

Oggi l’opinione pubblica se ne è dimenticata e l’episodio Moro è rimasto nella memoria collettiva come un momento isolato e unico nella storia italiana. Ma il caso Moro venne in realtà alla fine di un lungo periodo in cui la società italiana era ostaggio del terrorismo politico e il rapimento avvenne di proposito e coincise con il grande processo che si apriva quel giorno a Torino che vedeva coinvolti molti capi delle BR.

Mio padre era in quel momento capogruppo della DC alla Camera. In quegli anni ci eravamo abituati a vederlo convivere con la scorta, che gli imponeva di non venire a salutare i miei figli la sera per non creare percorsi abituali che potessero essere facilmente rintracciati.

Qualcuno ha definito Moro il “John Kennedy italiano”. È davvero possibile sapere tutto del sequestro e dell’assassinio dello statista?
Molti aspetti sono ancora in ombra e sarà oggettivamente difficile a quaranta anni di distanza fare chiarezza su tutto. Resta il risultato di quattro processi che hanno individuato e condannato nove brigatisti su dieci fra coloro che compirono la strage degli agenti della scorta e l’omicidio di Moro.

Ci sono delle domande alle quali vorrebbe dare risposta?
Sì. Vorrei fosse stato analizzato meglio il ruolo di parte del mondo universitario e quello che giocarono Franco Piperno e Lanfranco Pace, attivisti appartenenti a movimenti della sinistra extra parlamentare che all’interno dell’ipotesi di una trattativa furono in contatto diretto più volte con Morucci e Faranda, i brigatisti che tenevano prigioniero Moro. I due ebbero vari incontri diretti con loro perché non pensarono di seguirli per capire dove era prigioniero Moro? Mi sembra davvero l’anello debole in termini di operatività in quel dibattito lacerante fra fermezza e trattativa che squassò l’opinione pubblica del nostro Paese.

Perché non si trattò la sua liberazione?
La direzione della DC del 30 marzo 1978 mette a verbale che “non si lascerà nulla di intentato per restituire l’onorevole Aldo Moro alla sua famiglia e al suo partito”. I tentativi ci furono, sono documentati, vanno dalla raccolta di fondi portata avanti addirittura sotto l’egida del Pontefice, alla verifica di ipotesi di scambio di prigionieri, a possibili aperture finali che erano state previste per la direzione del partito del 9 maggio 1978. Fanfani avrebbe dovuto dichiarare una disponibilità a ulteriori trattative ma i brigatisti, in quelle stesse ore, fecero trovare il cadavere di Moro nella Renault rossa parcheggiata in via Caetani, a metà strada fra la sede del Pci in via delle Botteghe Oscure e quella della Dc in piazza del Gesù.

A proposito di Moro, Indro Montanelli disse: “Un generale che, sfiduciato del proprio esercito, credeva che l’unico modo di combattere il nemico fosse quello di abbracciarlo”. Si ritrova?
Devo dire che impressiona verificare l’effetto che ebbero su Moro quei 54 giorni di prigionia trascorsi nello spazio angusto della prigione del popolo di via Montalcini. E lo si vede con chiarezza dalle lettere che Moro scrive, anzi dalla calligrafia dello statista democristiano che diventa via via sfatta, quasi disarticolata. Credo basti questo, oltre al tenore delle lettere a dare il senso della solitudine e della disperazione in cui Moro visse quei giorni.

Che cosa ha perso l’Italia e che cosa ha imparato dal caso Moro?
Io sono personalmente convinta che il caso Moro vada letto in maniera molto più complessa che non riducendolo ad un “giallo”, perché la lente della storia criminale immiserisce una lettura più ampia che noi dobbiamo al Paese. Molti storici autorevoli se ne sono occupati.

Ricordo un episodio specifico a me caro. Nel 2003 De Rosa, Scoppola, Malgeri, Giovagnoli, tutti storici contemporaneisti ed esperti di storia della DC, furono impegnati all’Istituto Sturzo, che conserva le carte del cattolicesimo politico e quindi anche quelle della DC, in un incontro organizzato per rileggere i tre verbali delle direzioni del partito che si tennero durante i 54 giorni del sequestro Moro. Una direzione è del 17 marzo, il giorno dopo via Fani, una del 30 marzo per decidere la linea della fermezza, una è quella del 9 maggio, interrotta dalla notizia del ritrovamento del cadavere del Presidente Moro. A quell’incontro parteciparono alcuni degli uomini politici che avevano fatto parte di quelle direzioni: Guido Bodrato, Giulio Andreotti, Giovanni Galloni, Emilio Colombo, Antonio Gava, Remo Gaspari, Corrado Belci, Giancarlo Tesini, Leopoldo Elia.

Dai loro ricordi e dal confronto con gli storici emerge la presenza importante della società civile del Paese che si ritrovò insieme, bandiere bianche della Dc e bandiere rosse del Pci, a ribadire il proprio sdegno contro le BR, ad isolarle in un sussulto di orgoglio e di dignità che deve essere ricordato. Io credo che non dobbiamo dimenticarlo.

Così come non va dimenticato il dibattito profondo che attraversò il Paese e le coscienze dei singoli sulla difficilissima scelta in favore, da un lato, della trattativa e delle sue ragioni umanitarie, dall’altro della fermezza per il rispetto della vita democratica ed istituzionale del Paese. Ne fu straordinario esempio la figura di Paolo VI, il Papa, già ottantenne, amico personale di Moro ma consapevole interprete del rispetto che alle istituzioni deve essere riconosciuto in un Paese civile.

Sul caso Moro si è detto tanto e scritto ancor di più. C’è una lettura sull’argomento che consiglia più di altre e perché?
Parlavo prima di molti storici importanti che hanno ricostruito da angolature diverse quel periodo, quegli avvenimenti. Mi limito a citare alcuni volumi e alcuni autori che mi sembrano particolarmente interessanti: “Il memoriale della Repubblica” e “Aldo Moro, lettere della prigionia” di Miguel Gotor, “Il caso Moro” di Agostino Giovagnoli, la biografia di Moro scritta da Guido Formigoni ma anche i libri usciti in questi giorni, “Gli eroi di via Fani” di Filippo Boni dedicato agli uomini della scorta e “Aldo Moro, la fine della politica” di Marco Damilano che sto leggendo.

Se quel che è successo 40 anni fa fosse oggi, come reagirebbero il Paese e la politica secondo lei?
Mi auguro non possa accadere mai più. Il terrorismo voleva diventare guerra civile e non lo diventò proprio perché la politica ma soprattutto la società si rifiutarono di seguire questa strada.

Sono certa che una lezione di quel genere non possa passare inascoltata. È il motivo per cui preferisco una lettura “alta” che dia davvero il senso del significato che il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e della sua scorta hanno avuto per il nostro Paese.