BEGIN TYPING YOUR SEARCH ABOVE AND PRESS RETURN TO SEARCH. PRESS ESC TO CANCEL

Appello “A tutti gli uomini liberi e forti” un secolo dopo

In occasione del Centenario dell’Appello “A tutti gli uomini liberi e forti” di Don Luigi Sturzo, Flavia Piccoli Nardelli ha preso la parola alla Camera dei deputati per ricordare quel «messaggio, di singolare chiarezza e di insuperata forza, che si caratterizzava per una forte tensione etica e civile, per il richiamo ai problemi e alla realtà di quel dopoguerra, alle attese di una pace secondo giustizia e alla necessità di trasformazioni politiche, amministrative e sociali, che riconoscessero all’Italia un suo ruolo e una sua dignità».

Pubblichiamo di seguito l’intervento integrale di Flavia Piccoli Nardelli

Appello “A tutti gli uomini liberi e forti” un secolo dopo
22 gennaio 2019

di Flavia Piccoli Nardelli

Caro Presidente, cari Colleghi,

come è stato ampiamente riportato dalla stampa e approfondito in seminari e convegni, 100 anni fa, il 18 gennaio 1919, nasceva un nuovo partito politico: il PARTITO POPOLARE ITALIANO.

Nasceva a pochi mesi dalla conclusione della Prima Guerra Mondiale, un conflitto sanguinoso, vinto a caro prezzo dal nostro Paese, che aveva visto coinvolti soprattutto i ceti più poveri della popolazione e che li aveva restituiti, alla fine della guerra, ulteriormente impoveriti e frustrati.

Il nuovo partito, fondato da Luigi Sturzo, si presentava con un Appello “a tutti gli uomini liberi e forti che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini supremi della Patria, senza pregiudizi ne preconcetti … perché uniti propugnano nella loro interezza ideali di giustizia e di libertà”.

Era un messaggio di singolare chiarezza e di insuperata forza. Si caratterizzava per una forte tensione etica e civile, per il richiamo ai problemi e alla realtà di quel dopoguerra, alle attese di una pace secondo giustizia e alla necessità di trasformazioni politiche, amministrative e sociali, che riconoscessero all’Italia un suo ruolo e una sua dignità.

II programma, in dodici articoli, proponeva libertà di insegnamento; unità sindacale; una legislazione sociale, assistenziale e assicurativa; la riforma agraria e lo sviluppo del Mezzogiorno; il decentramento amministrativo con l’istituzione delle Regioni; l’introduzione della rappresentanza proporzionale, del voto femminile e del Senato elettivo; il rispetto della Società delle nazioni quale arbitra dei rapporti internazionali; l’abolizione dei trattati segreti e della coscrizione obbligatoria; il disarmo universale.

Raccoglieva la tradizione del movimento politico e sociale dei cattolici, della prima Democrazia Cristiana di Romolo Murri e si richiamava anche alla cultura e al pensiero del cattolicesimo liberale dell’Ottocento.

Non era un Partito cattolico ma di cattolici, laico e aconfessionale, per volere di Sturzo.

«E tuttavia, senza la parola “cattolico” nel suo nome. I due termini sono antitetici; il cattolicesimo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione. Fin dall’inizio abbiamo escluso che la nostra insegna politica fosse la religione e abbiamo voluto chiaramente metterci sul terreno specifico di un partito che ha per oggetto diretto la vita pubblica della nazione… Noi non possiamo trasformarci da partito politico in ordinamento di Chiesa, né abbiamo diritto di parlare in nome della Chiesa…»: così il sacerdote siciliano al primo congresso del PPI nel giugno 1919 a Bologna.

Il nuovo partito si avvaleva dell’esperienza che il prete siciliano aveva accumulato come prosindaco di Caltagirone e come vicepresidente dell’ANCI.

Trovò sostegno dalla rete capillare della stampa cattolica, delle organizzazioni sindacali bianche, delle leghe contadine, delle cooperative e delle casse rurali, delle associazioni sociali, culturali, giovanili cattoliche presenti nel territorio del nostro Paese.

«Per capire il rapido, incontestato successo del partito popolare italiano, dobbiamo ricordare che il movimento cattolico sociale, chiamato o no Democrazia Cristiana, si era sviluppato ininterrottamente nel corso degli anni di crisi e di guerra. Perciò, all’inizio del 1919, appena due mesi dopo l’armistizio, esistevano in Italia, nelle mani dei cattolici sociali, più di quattromila cooperative, qualche migliaio di enti assistenziali dei lavoratori, circa trecento banche popolari, molte società professionali (le quali si erano confederate nel settembre 1918), raggiungendo in breve una partecipazione di almeno ottocentomila membri (e nel 1920 un milione duecentomila). Inoltre, molti studenti delle scuole secondarie e delle università erano stati educati per lungo tempo in associazioni cattoliche per la gioventù. Essi avevano dato, durante la guerra, un magnifico esempio di coraggio militare e di virtù cristiane. Entrarono spontaneamente a far parte del partito popolare, diventandone la leva intellettuale e morale, proprio come le masse operaie delle unioni cattoliche, delle leghe e cooperative rurali, erano le reclute più convinte e più disciplinate. E infine, la cooperazione delle classi medie e intellettuali, dottori, avvocati, professori. Ingegneri e tecnici, si rivelò di importanza e respiro mai visti in un giovane partito di chiara natura sociale. È strano che giornalisti e scrittori americani designassero il partilo popolare come un partito rurale appartenente soprattutto all’Italia meridionale. Il fatto è che il più forte contingente del partito veniva dall’Italia del nord e dalle grandi città, dove i cattolici erano meglio organizzati e avevano scuole migliori, più programmi sociali e circoli di studio.
A parte il rapido successo del partito popolare italiano, tanto fra le varie classi sociali che nel parlamento stesso (in dieci mesi guadagnò un quinto dei seggi della camera dei deputati), il fatto interessante da notare è il suo spirito e il suo programma profondamente democratico…» Lettera di Sturzo a Igino Giordani, 21 agosto 1944 (Luigi Sturzo, Coscienza e politica, collana “I vascelli” 1993)

In dieci mesi – tanto corre tra l’appello di Sturzo, presentato il 18 gennaio 1919 all’albergo Santa Chiara a poche centinaia di metri da Montecitorio – e le elezioni che si tennero nel novembre dello stesso anno – raccolse il 20,5 per cento dei voti e riuscì a portare in quest’Aula 100 parlamentari, che divennero 108 nelle elezioni del 1921. Ne ricordo alcuni, c’erano Anile, Bazoli, Bonomi, Cappa, Cingolani, Donati Gronchi, Jacini, Longinotti, Mauri, Meda, Micheli, Miglioli, Montini, Rodinò, Tupini.

Il Partito Popolare Italiano ebbe vita breve. Fu sciolto – sette anni dopo la sua fondazione – dal Fascismo trionfante, contro cui Sturzo condusse una intensa e decisa battaglia, che pagò con un lungo e pesante esilio. Ma lo spirito, i valori e le battaglie del Partito rimasero vitali durante il ventennio fascista e riemersero con la stessa forza dopo il secondo conflitto mondiale per dare alimento alla Democrazia Cristiana degasperiana.

Sono valori riconoscibili e peculiari ancora oggi: un partito che si definisce “Popolare” ma il cui soggetto non è un popolo senza volto, genericamente inteso, ma un popolo fatto di persone legate tra loro da una fittissima rete di corpi intermedi, quegli organismi naturali come la famiglia, le classi, i comuni, capaci di condividere valori, idee e programmi ed essere espressione di una dimensione organica della società e dello Stato

Onorevoli Colleghi, credo davvero che il Partito Popolare italiano e i suoi uomini abbiano rappresentato un momento alto e significativo della storia del nostro Paese. Ricordarlo oggi e studiarlo è un impegno che dobbiamo al Parlamento, al passato e anche al futuro del Paese.

Fin dove resta valida oggi la concezione del popolarismo sturziano?

Nel dicembre 1942, durante l’esilio statunitense, in un articolo pubblicato su Il Mondo di New York, Sturzo scriveva: «La storia non si ripete; l’esperienza del Partito polare italiano fu unica: esso fu creato dopo la prima guerra mondiale come il contributo dei cattolici al nuovo ordine, democratico e pacifico, che doveva seguirne. Ma esso fu anche il compimento integrale della vita nazionale dopo che i cattolici (…) ne erano assenti dal 1870 in poi».

Carlo Sforza, compagno d’esilio di Sturzo, definì questo articolo «l’atto di morte del partito popolare». In realtà, più che atto di morte, si trattava da parte di Sturzo, della constatazione della irripetibilità di quell’esperienza. Concetta Argiolas “De Rosa, quando Sturzo costruiva l’idea popolare”, Europaquotidiano, 24 dicembre 2005.