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La relazione del ministro Giannini sul ddl “La Buona Scuola”

«Portare in Parlamento questo ddl ha una valenza politica e culturale molto forte perché il testo ne esce arricchito e integrato con la risoluzione di alcuni nodi tecnici e politici che siamo lieti siano stati sciolti già qui alla Camera» ha dichiarato il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Stefania Giannini prima di intervenire nella discussione sulle linee generali del disegno di legge alla Camera dei Deputati.

Pubblichiamo di seguito il testo integrale della relazione della Ministra dell’istruzione, dell’università e della ricerca in sede di discussione sulle linee generali del disegno di legge “Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti” (A.C. 2994-A) ed abbinate.

STEFANIA GIANNINI, Ministra dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Grazie, signor Presidente, onorevoli deputati, gentili deputate, il disegno di legge che è stato intensamente discusso quest’oggi alla Camera dei deputati ha sostanzialmente dato corpo a un lungo e intenso lavoro, che è durato un anno, che ha coinvolto le forze di maggioranza, che ha coinvolto in questa fase, e non solo, le opposizioni, che ha portato nel Paese, come tema centrale, inusitato nella storia recente del nostro Paese, il tema dell’istruzione.

Chi lo ha contestato con animosità ha espresso la stessa passione di chi intende, con questa norma, presentare un nuovo progetto educativo per l’Italia, per rendere la scuola italiana migliore, la stessa passione. Con questo disegno di legge – ci ha detto uno dei giovani studenti che abbiamo ricevuto non ritualmente negli incontri fatti ieri a palazzo Chigi – il Governo si sforza – e ha messo in rilievo, come tutti, luci e ombre – di portare la scuola italiana dal Novecento a questo secolo. Ce lo ha detto con quella semplicità che deriva dall’essere a scuola, in quel caso, ormai all’università – e dal cogliere la complessità di questo mondo, la complessità che ha richiesto un coraggio – è la parola che mi viene in mente pensando allo sforzo comune – che è il coraggio di affrontare un enorme, inestricabile complessità, fatta di leggi e di regolamenti, che si sono stratificati negli anni, insieme anche a molte aspettative e anche a molte aspettative che sono diventate nel frattempo frustrazioni, ma che non hanno spento le speranze di chi vive e lavora quotidianamente negli oltre 40 mila istituti scolastici del nostro Paese. E questo coraggio è un coraggio umile, è il coraggio di analizzare questa complessità, di affrontarla, consapevoli appunto della difficoltà di trovare un principio unificante, di spiegarla e anche di rispondere a questa complessità e alle aspettative che essa sottende.

Il mondo della scuola, dal mio punto di vista, non ammette né semplicismi, né semplificazioni, ma esige in ogni suo passaggio un’analisi accurata e una visione d’insieme che la superi. Quindi, si può definire riforma, si può definire provvedimento legislativo – tutte e due le cose hanno una rispondenza, non solo semantica, ma anche fattuale a quello che stiamo facendo – ma io preferirei parlare di una visione di insieme che affronta una serie di questioni che sono state enunciate sia da chi ha difeso il provvedimento, sia da chi in sede di opposizione, ne ha messo in rilievo, talvolta con molte inesattezze, ma comunque legittimamente, i punti deboli.

Il precariato scolastico l’abbiamo affrontato – perché questo è uno dei punti, certamente non l’unico – non con la fretta di chi vuole scansare un problema, ma con l’urgenza di chi vuole rimuoverlo per sempre, senza rinviare ad altri, come è stato fatto negli ultimi vent’anni in questo Paese, ma anche cercando di capire quali sono gli strumenti reali per porre una riga definitiva e per inaugurare una nuova stagione.

Nel fare questo, abbiamo individuato un metodo, un metodo innovativo, che ha anche scardinato le aspettative di molti proprio perché innovativo, cioè portare il dibattito sulla scuola non solo dentro il mondo della scuola, ma nella società.

Questo è il senso della consultazione, questo è il senso della trasformazione, dell’evoluzione, del miglioramento e del perfezionamento di questo testo. Questo è il senso della scelta di farne un disegno di legge e di portarlo nelle Aule parlamentari. L’evoluzione del testo non è un sintomo di una sorta di aggiornamento e di modifica di una tela di Penelope di idee, ma è la prova certificata del fatto che il Governo e il Parlamento stanno lavorando per un progetto importante, direi fondamentale, per il futuro del Paese.

E, allora, ci siamo chiesti come vogliamo che sia la nostra scuola, quindi il futuro del sapere dei nostri ragazzi da qui ai prossimi vent’anni e, quindi, quali competenze, quali saperi, quali metodi didattici, quali insegnanti, quali criteri di aggiornamento e di formazione in servizio dei nostri insegnanti. Soprattutto, la domanda di fondo, quella che non è ancora emersa – mi sembra – nelle parole che ho ascoltato con estrema attenzione da tutti voi, quali cittadini noi vogliamo che escano dalla scuola italiana.

Io non so se collego naturalmente il dibattito di oggi, che giustamente è stato molto concentrato su questi temi anche tecnici, come è giusto che sia, ad eventi di altro tipo, ma che hanno lo stesso sfondo. Tuttavia, pensavo in queste ore che quando abbiamo assistito agli eventi drammatici che la Francia ha subito – e l’Europa con essa – nel febbraio scorso, che gli assassini di Charlie Hebdo hanno frequentato la scuola in Europa e a me viene in mente, quindi, in questo momento, nella responsabilità alta e forte, importante e delicatissima che rivesto, non tanto di chiedermi se in una lista delle supplenze ci sarà un errore, perché potrà anche esserci ed è mio compito occuparmene, ma mi viene da chiedermi se ieri mattina, se oggi stesso, che è giorno di scuola, se domani mattina la scuola di cui rispondo saprà estirpare quel germe di violenza che ha portato alcuni dei ragazzi nati, cresciuti ed educati in Europa a quegli eventi e se saprà, al tempo stesso, iniettare un embrione di tolleranza, di inclusività, di conoscenza dell’altro, di capacità di essere il luogo, come è stato ben detto in alcuni interventi, della convivenza, il primo luogo della convivenza, il primo luogo in cui si può esprimere ciò che si è al di là dei diversi talenti e al di là dei diversi obiettivi. E la stessa cosa mi viene in mente quando assisto alle cronache drammatiche di femminicidio o di altre forme di discriminazione e di violenza. E, allora, il nostro obiettivo è chiederci come fare perché i nostri insegnanti possano dare il miglior modello per quei ragazzi affinché domani, auspicabilmente, non cadano in questi errori.

Noi abbiamo, quindi, tracciato, in questo lungo anno, un fabbisogno di sapere e di educazione che sullo sfondo ha i cittadini dell’Italia di domani e siamo partiti da qui per costruire lentamente – perché un anno è lungo per parlare di un argomento, pur delicato, importante e centrale come quello dell’istruzione – un disegno di legge che ne riassuma i principi fondanti. L’abbiamo fatto immaginando di assumere – e questa è la prova che lo faremo con le risorse assegnate – tutti i docenti di cui la scuola italiana ha bisogno, di modificare e/o potenziare gli insegnamenti d’istruzione e, quindi, quella che tecnicamente è l’offerta formativa della nostra scuola, là dove serve, come serve, con un concetto di flessibilità che entra, per la prima volta, nella reale autonomia della scuola italiana, portando innovazione, che non è solo innovazione nel senso più stretto e più – se mi consentite – banale del termine, legata, quindi, al necessario adeguamento ad una società che attinge dati ormai da molte fonti, oltre e fuori dalle aule scolastiche, ma innovazione epistemologica, e soprattutto aprendo la scuola al lavoro, al territorio, al contesto, alla società.

Si è parlato di comunità educante. Questo disegno di legge pensa a una città educante, di cui la scuola sia il centro sostanziale.

Partendo sempre tutto questo da una presa d’atto, e cioè che le certezze e le garanzie da offrire ai nostri figli non sono più le stesse che i nostri genitori hanno cercato, talvolta con fatica – parlo della mia generazione – e con sofferenza di garantire a noi. Fino a trent’anni fa la certezza di un genitore da offrire ai propri figli era la casa su cui non si pagava l’ICI, d’ora in avanti assicurare una certezza ai nostri figli è garantirgli conoscenza e competenze adeguate al ruolo che dovranno trovare nella vita, non solo sul luogo del lavoro, ma nella vita; conoscenza e competenze, dottrina e metodo, qualcuno ha detto molto bene – mi pare da quella parte – imparare ad imparare. E allora io credo che, se noi siamo convinti che il protagonismo dei futuri cittadini nascerà da quello che sapranno e non da quello che avranno e nemmeno da quello che saranno in grado di produrre, allora siamo anche convinti che c’era veramente bisogno di immaginare un nuovo progetto educativo per l’Italia di oggi e per quella che sarà domani. E allora è per questo che la scuola è diventata nel Governo Renzi, di cui mi onoro di far parte, il primo punto cardine di una scelta politica e culturale. E allora è per questo che noi vogliamo, e siamo convinti che ciò sarà, che la scuola torni ad essere quello strumento di mobilità sociale che è stata in altre stagioni, alcune remote, anche differenti culturalmente e storicamente, ai tempi di Giolitti, quando sconfisse il primo grande male del nostro Paese, l’analfabetismo, e ai tempi della media unificata, la cui riforma ebbe pure un contrasto politico molto aspro, senza la quale la metà, non certo i più giovani, ma sicuramente la metà dei membri di questo autorevole Parlamento, non avrebbero lo strumento del sapere, quella che Don Milani, in una delle letture a me più care definiva: la lingua che dobbiamo restituire a tutti e che tutti fa eguali.

Allora, noi lavoriamo con questo disegno di legge, come è stato molto ben detto nella relazione introduttiva della relatrice, ma anche in molti degli interventi che si sono succeduti, perché la nostra scuola possa generare inclusione e integrazione, ma anche competitività nelle conoscenze acquisite, mobilità nelle stesse conoscenze, dinamismo intellettuale e culturale, quindi possa indirettamente generare sviluppo. Il Governo ha già fatto provvedimenti di respiro; ne cito uno, che è particolarmente significativo dell’azione politica di questo Governo: la riforma del lavoro, se vogliamo ispirarci all’italianismo non illegittimo testé citato dall’onorevole Rampelli, o il Jobs Act, se vogliamo citare la definizione tecnica che è stata data a questo provvedimento. Con questo provvedimento il Governo non ha deciso cosa contro-lottare nel mondo del lavoro, ha deciso, ha spiegato e ha condiviso nel Parlamento, come oggi facciamo, che mondo del lavoro vuol dare al nostro Paese, e il Parlamento ha fatto la sua scelta e ha deciso in questo che la normalità del mondo del lavoro doveva tornare ad essere il contratto a tempo indeterminato, cioè la stabilità, il diritto alla stabilità e alla permanenza nel lavoro che si è scelto o che si è riusciti a conquistare, talvolta dopo percorsi molto faticosi.

Con la scuola abbiamo lo stesso obiettivo intanto: ricostituire la normalità che decenni di scelte mancate hanno fatto scomparire e a cui – diciamolo pure – ci siamo anche tutti molto abituati, anche da genitori, anche da cittadini; la normalità di un processo per cui chi lavora nella scuola sia scelto sulla base del fabbisogno della scuola stessa e sia selezionato attraverso un concorso pubblico nazionale, che ritorna al ripristino, anch’esso naturale, per quanto scomparso dal nostro orizzonte da molti anni, della Costituzione italiana, con l’articolo 97, come è stato prima citato. E per decenni abbiamo risposto a questa rinuncia alla normalità innalzando – non noi, ma molti prima di noi, con discontinuità di colore politico, ma con continuità di azione governativa e parlamentare – una Babele di graduatorie, che hanno alimentato una gigantesca macchina – l’ho detto prima e lo ripeto – di aspettative legittime e di frustrazioni e che sembrava in qualche momento accontentare qualcuno e che, invece, alla fine, ha deluso tutti ed è costata anche un patrimonio di risorse.

Il costo della precarietà – lasciatemi dire – è su tre livelli: economico, culturale sociale. Economico perché le centinaia di milioni spesi ogni anno nelle supplenze, quelle sui famosi posti vacanti e disponibili, su cui questo provvedimento fa un intervento che non è chirurgia estemporanea, ma è definitiva soluzione del problema, sono, forse, il peggior modo di allocare le risorse nel mondo della scuola. Sfioriamo il miliardo, sfioriamo il miliardo!

Un costo culturale perché un personale appeso, come è stato detto con questo ossimoro originale, a una «precarietà stabile» è, forse, potenzialmente il meno motivato e il meno, potenzialmente almeno, ideale per creare un’offerta di valore, una motivazione e una continuità di messaggio per i nostri ragazzi.

E un costo sociale perché, se questa instabilità lavorativa è forzata e prolungata nei decenni, impedisce anche a chi la subisce di costruire un progetto di vita, e, per chi la subisce, è un diritto riconquistare la stabilità ed è un dovere per lo Stato, che se ne deve far carico, anche se ci vuole coraggio, perché la complessità è stata detta e denunciata in una selva – cito dagli interventi che mi hanno preceduto – di sigle che non sto a rievocare, perché a molti di voi sono note e non ci servono adesso per trovare la soluzione, che è contenuta in questo disegno di legge.

Ma quello che serve, invece, è ricostituire, con fatica, con consapevolezza e con umiltà, la normalità di una selezione per concorso basata sul fabbisogno, quindi riconsegnare uno dei grandi processi sociali del nostro Paese alla sua fisiologia e alla sua naturalezza. E, quando parlo di normalità, permettetemi, lo faccio con un briciolo anche di orgoglio, perché sono stati molti i ministri, i membri di Governo, che si sono fatti esplicitamente paladini dei precari, senza, però, affrontare mai il tema fino in fondo e senza risolverlo, anzi, alimentandolo. Noi non siamo paladini dei precari, ma poniamo termine al precariato, per uscire da questa immagine di una scuola accampata in quella che definirei una terapia intensiva continua.

E, allora, fissare il paradigma di una buona scuola, gentili onorevoli, non significa ritenere che la scuola italiana sia una cattiva scuola, tutt’altro. Con tutti i limiti e anche le sofferenze che conosciamo, che chi opera nel mondo la scuola, ma anche chi ha figli che in essa studiano, conosce, la scuola italiana resta una scuola di ottimo livello, perché fondata su quei principi che nei gradi successivi di istruzione, nell’istruzione superiore, il grande filosofo e studioso Von Humboldt definiva l’unità del sapere, cioè una miscela di competenze e di conoscenza che mette sullo stesso livello il sapere umanistico e le discipline scientifiche, e deve oggi, però, aprirsi al rinnovamento, trasformando e riuscendo a trasformare questo solido bagaglio di conoscenza in competenze applicate.

Questo è il senso del secondo articolo, in cui si danno i fondamenti dell’apparato di conoscenze e di sapere che i nostri studenti potranno avere nei prossimi anni. Questa, quindi, che non è una cattiva scuola, questa di oggi, però non sarà buona, e non sarà buona fino in fondo finché non lo diventa per tutti e ovunque, per tutti e ovunque.

È ancora molto discontinua, è ancora molto diseguale, è ancora molto vittima di molte difficoltà in alcune aree del Paese, e non necessariamente facendo una divisione geografica tra il nord, il centro e il sud, ma anche tra le diverse aree, quelle interne e quelle meno centrali, i centri delle grandi città e le periferie, in cui la scuola talvolta è in sofferenza, e chi l’ha visitata, come io personalmente e molti di noi hanno fatto quest’anno, passo passo, in tutta Italia, per parlare di scuola, ne ha visto i segni tangibili.

Allora questa scuola, affinché possa essere buona per tutti, cioè diventare strumento fondamentale di eguaglianza, di crescita e di sviluppo della coscienza critica – quindi produrre cittadini –, va aperta, migliorata impreziosita, resa libera e autonoma, europea, multiculturale, quindi, degna di un Paese come il nostro, che è, come è stato ricordato – e io sono molto d’accordo, un gigante culturale per quel che riguarda il passato, ma protagonista e responsabile di dinamiche molto più complesse per quello che riguarda il presente e il futuro, soprattutto in area mediterranea.

Dopo anni di tagli e di cambiamenti senza visione, direi alla cieca, noi oggi invertiamo completamente con questo disegno di legge questa tendenza. Lo facciamo con un piano ambizioso, che viene dalla politica, dall’amministrazione e dalla società e che nel suo sviluppo e nella sua attuazione, per andare oltre i limiti di questo disegno di legge – come in tutto anche questo ovviamente è un primo passo –, ha bisogno di politica, di amministrazione e di società.

I cardini li avete ricordati tutti, chi criticandoli, chi elogiandoli. Li ripeto solo per punti anche perché mi avvio ovviamente alla conclusione: merito, eguaglianza, valutazione, formazione costante. Se c’è un pregio – permettetemi di dire – non è nel mio, ma nel vostro e nel complessivo lavoro, un pregio che nessun editoriale riesce a scardinare e che nessuna dichiarazione – anche talvolta giustamente aspra perché politicamente connotata – può mettere in discussione, è il fatto che dietro l’etichetta di «buona scuola», che questo Governo ha presentato e continua a presentare, ora al Parlamento, prima al Paese, c’è la visione di un progetto educativo. Può essere condiviso o non condiviso, può essere condiviso in parte o contestato in parte, ma c’è la visione di un progetto educativo.

L’esempio che faccio, quello che è stato anche oggetto di discussioni anche molto forti e molto aspre in qualche caso in questi giorni, è quello della valutazione. La valutazione può essere migliore, se qualitativamente fondata e se scientificamente fondata. Quella che portiamo nella scuola italiana lo è, quella che abbiamo portato molti anni fa, più di dieci anni nell’università italiana, lo è. Può e deve essere costantemente migliorabile, deve miscelare criteri quantitativi con criteri qualitativi, tuttavia, peggio della valutazione c’è solo la non valutazione. È quello che non possiamo più tollerare, è quello di cui non possiamo più permetterci lo spreco.

Questa che è una parola che era un po’ un tabù nel mondo della scuola – ma non solo in quella italiana – noi vorremmo che diventasse il punto di svolta di una cultura che si diffonda dalla scuola nella società. Come ho detto in altre occasioni, non significa redigere graduatorie di vincitori e di sconfitti, non significa fare una lista dei bravi e una lista dei cattivi, magari sulla lavagna. No ! Significa semplicemente – ma crucialmente – capire, diagnosticare e individuare quali sono i punti di forza del lavoro dell’individuo e della collettività e come trovare successivamente e subito gli strumenti per intervenire e per trasformare i punti di debolezza in miglioramento costante e i punti di forza nello strumento di successo del progetto di quell’istituto scolastico o di quella classe o di quell’insegnante.

Questo principio di valutazione Invalsi è uno strumento, non è la valutazione della scuola. È uno strumento che va a certificare competenze molto specifiche. Ma la valutazione nella sua complessità serve, di fatto, a rimuovere quegli ostacoli che impediscono l’uguaglianza, perché è lo strumento per arrivare all’uguaglianza qualitativa. Noi siamo fieri che in questo anno, oltre a parlarne, si siano fatte delle cose, che la valutazione stia diventando qualcosa di diffuso nella scuola italiana, che vi siano molti insegnanti – qualcuno l’ha detto da insegnante – che non sono soltanto lieti di poterla vivere e di poterla trasmettere come valore ai propri studenti, ma che sono cresciuti e vogliono trasmettere questo valore nella cultura del merito e dell’analisi consapevole, umile e accurata del risultato del lavoro svolto.

Io credo in questa, come in altre innovazioni importanti… si è parlato – e mi fa piacere ricordarlo – del rapporto tra scuola, lavoro e territorio, della combinazione sincronica e simultanea della conoscenza teorica con la conoscenza applicativa – sapere e saper fare –, che non era assolutamente purtroppo diffusa nella nostra scuola, e di altre importanti innovazioni. Parlo del capitolo sull’innovazione digitale, che non significa solo strumenti infrastrutturali, ma significa prendere atto e trasferire nel mondo della scuola che non basta più un metodo frontale ed asimmetrico di insegnamento, ma che si deve arrivare alla combinazione di più metodi con la stessa classe e con gli stessi bambini e con gli stessi alunni e, quindi, personalizzare il percorso di apprendimento, perché – è stato molto ben detto – ciascuno ha un talento e nessuno è incapace di fare qualcosa.

Veramente concludo. Ci è stato detto che tutto questo lo abbiamo fatto troppo in fretta, lo facciamo con il carattere dell’urgenza. Non so se sia urgenza, sicuramente non è emergenza. È quella rapidità che serve alla società, di cui un Governo responsabile deve farsi carico. È quella rapidità che si coniuga con un dialogo costante, che non è affatto singolare che continui in queste ore, in cui dalla Camera dei deputati si passerà al Senato della Repubblica e in cui, quindi, questo operoso lavoro di perfezionamento del progetto educativo che è contenuto in questo disegno di legge sarà il risultato veramente di un’operazione comune, importante.

Quindi – e davvero, Presidente, concludo –, la scuola non è una periferia per il Governo Renzi, la scuola è il centro della società. Questo forse è anche ciò che ha scatenato l’animosità, di cui parlavo all’inizio, del dibattito, perché non si era abituati a questo. Di solito di scuola si parlava nella scuola e tra gli addetti al mondo della scuola, oppure, legittimamente, tra gli addetti del mondo della scuola e chi della scuola rappresenta le istanze di lavoro e di organizzazione. Invece, adesso è un tema centrale nella nostra riflessione.

Allora, noi lavoriamo perché tutti i ragazzi che entreranno nella scuola, nella buona scuola italiana, che facciano nasi d’argilla perfetti o esprimano la loro identità, il loro patrimonio di conoscenze e il loro punto di vista sul mondo, siano veramente stati resi eguali da questo complesso processo che si chiama insegnare e che non è un caso che in molte lingue del mondo abbia esattamente la stessa radice etimologica della parola che significa apprendere (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

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