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No tax area per studenti universitari con redditi bassi

La Camera ha approvato la mozione di maggioranza, a prima firma della deputata PD Manuela Ghizzoni, sul diritto all’accesso agli studi universitari per tutelare il talento dei giovani studenti con i redditi più bassi. Infatti, la mozione impegna il Governo a valutare di esentare dal pagamento delle tasse universitarie tutti gli studenti con un Isee (indicatore della situazione economica equivalente) al di sotto di una determinata soglia, ma anche a stabilire incentivi sopra la no tax area per venire incontro agli studenti con reddito familiare basso ed a compensare gli atenei per il calo di gettito. Inoltre, il Parlamento chiede al Governo di stabilizzare le risorse del Fondo integrativo per il diritto allo studio, incrementandone progressivamente l’entità.

Pubblichiamo di seguito l’intervento di Manuela Ghizzoni che ha illustrato le ragioni della mozione sul diritto all’accesso agli studi universitari nella dichiarazione di voto formulata in Aula a nome del Partito Democratico.

MANUELA GHIZZONI. «Signora Presidente, onorevoli colleghi, sono decine di migliaia i giovani diplomati che ogni anno nel nostro Paese decidono o sono costretti dalle contingenze a non proseguire gli studi universitari o la loro formazione. Questa è una pessima notizia ed è un errore strategico per il nostro Paese, che spreca così i loro talenti e rinuncia ad investire sulla loro intelligenza e sulla loro preparazione. È un problema non da poco, perché sappiamo che sarà il talento e non il capitale a fare la differenza per la crescita del nostro Paese, perché di fronte alla ristrutturazione planetaria delle gerarchie economiche e a una profonda trasformazione demografica, le società mature come appunto Italia potranno reagire solo se si baseranno sulla conoscenza per dare vita ad una società solidale, sostenibile e intelligente.

Non siamo oggi attrezzati ad affrontare questa sfida, lo hanno detto molti colleghi prima di me: abbiamo la maggiore dispersione scolastica in Europa, la minore percentuale di ragazzi che accedono all’università, il minor numero di laureati nella fascia di età 25-34 anni, rispetto a tutti i Paesi dell’OCSE. Le matricole, poi, sono sempre più ragazzi che escono dal liceo e sempre meno studenti che si diplomano negli istituti professionali e negli istituti tecnici, questo significa che non garantiamo più pari opportunità, mobilità sociale e uguaglianza sostanziale. Eppure avere più formazione e più laureati converrebbe a tutti, al Paese e alle persone. I dati smentiscono infatti chiaramente il luogo comune che la laurea è solo un pezzo di carta, perché il laureato vive più a lungo, guadagna di più e ha reagito meglio alla crisi.

Sono tutti dati che noi abbiamo inserito chiaramente nelle nostre premesse, e mi dispiace che il collega che è intervenuto prima di me evidentemente sia stato colpito da una sindrome di lettura selettiva e non abbia voluto vedere quello che chiaramente abbiamo scritto nella nostra premessa di mozione unitaria. Se poi – e anche questo abbiamo scritto nelle premesse – scomponiamo i dati su scala regionale, abbiamo un problema nel problema, cioè che al sud si registrano i minori tassi di accesso all’università, si registrano i tassi più alti di abbandono precoce o di ritardo negli studi, il minor numero di laureati e la più alta percentuale di mobilità, in particolare verso le università del nord. Questa è una sperequazione che noi non possiamo ignorare, se non vogliamo assistere inermi alla perdita di un intero pezzo di Paese in termini di giovani talenti inespressi e di opportunità perdute.

Chi studia questi fenomeni sa che un pezzo del problema sta nella gracilità del nostro sistema del diritto allo studio: solo – è stato ricordato – l’8,2 per cento degli studenti universitari italiani gode di una borsa di studio. Abbiamo poi questo strano primato dello studente idoneo non beneficiario, cioè che avrebbe diritto a una borsa ma non può ottenerla perché non abbiamo adeguati finanziamenti, e questo capita soprattutto nelle regioni del sud.

L’ultima legge di stabilità – questo è l’altro dato che evidentemente al collega che mi ha preceduto è scomparso dal proprio radar – ha messo 55 milioni in più per il diritto allo studio: è una scelta giusta, sacrosanta, importante, che rivendichiamo. Naturalmente adesso dobbiamo – e lo chiediamo al Governo – stabilizzare questo risultato e fare in modo che il Fondo cresca ancora di più progressivamente, se vogliamo dare una certezza ai nostri studenti e aumentare l’efficacia di questo diritto, che è costituzionalmente garantito.

Altro impegno che chiediamo al Governo è quello di emanare velocemente il decreto relativo alla fissazione dei livelli essenziali di prestazione e in particolare di intervenire sui criteri per ripartire le risorse statali tra le regioni per garantire il diritto allo studio. Oggi – lo diceva il collega Palese – accade che non si fa riferimento al fabbisogno reale delle singole regioni. Questo che cosa vuol dire ? Stiamo penalizzando i giovani che vivono nelle regioni del sud, che poi sono costretti ad andare nelle regioni del nord, dove invece questo diritto diventa più realmente esigibile.

Le tasse universitarie sono un altro capitolo su cui ovviamente dovremo intervenire, perché checché ne dica la vulgata, lo dicono le statistiche internazionali che le tasse universitarie in Italia sono troppo alte per troppe famiglie di ceto medio e medio impoverito (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

Noi siamo al terzo posto, questa è un’evidenza scientifica, quindi occorre intervenire per garantire la progressività dell’imposizione e la salvaguardia dei redditi bassi e del ceto medio impoverito, come dicevo. Proponiamo quindi al Governo di valutare una no tax area per gli studenti con reddito familiare basso e compensare gli atenei per il calo di gettito. Non servono ingentissime risorse, basterebbe una piccola porzione del bilancio dello Stato, per uno scopo che è sempre stato trascurato e di cui stiamo parlando invece da un’ora e che è evidente a tutti, cioè favorire un maggiore accesso all’università delle fasce deboli della popolazione.

Altro fronte sul quale intervenire è quello che riguarda la modalità di ripartizione dei finanziamenti statali agli atenei, in particolare di una quota cospicua, quasi 4 miliardi e mezzo all’anno, che viene definita «quota base». Dall’anno scorso, dal 2015, è stato introdotto il metodo del cosiddetto costo standard per studente in corso, che è apprezzabile come strumento, perché in realtà si valuta attentamente il costo degli atenei e soprattutto è apprezzabile per la trasparenza dei meccanismi di calcolo, però riteniamo, con dei dati alla prova che abbiamo alla mano e che abbiamo inserito nella nostra risoluzione e su cui siamo intervenuti in sede di discussione generale, che questo metodo apprezzabile va comunque valutato attentamente e meriterebbe, dopo la prima applicazione, uno studio al fine di migliorarlo e di rafforzarne i tratti di equità e di giustizia.

Ad esempio, il cosiddetto addendo perequativo non è sufficiente, perché dovrebbe essere commisurato – lo dice la legge n. 240 – ai differenti contesti economici, territoriali ed infrastrutturali in cui opera l’università, ma in realtà esso pesa pochissimo. Penso, per esempio, soprattutto al sud, in particolare alle isole, Sardegna e Sicilia, dove pesa per una percentuale inessenziale sul costo standard.

Altro aspetto da ricalibrare è quello della cosiddetta numerosità ottimale dei corsi, che conteggia i soli studenti «in pari», come si dice, cioè in corso, in misura uguale per tutti gli atenei. Si tratta di una penalizzazione territoriale molto dura degli atenei, indipendentemente dalla loro qualità, tanto nella ricerca quanto nella didattica, perché la formula non tiene conto dei contesti, vale a dire, per esempio, la densità di popolazione, l’attitudine di immatricolarsi in loco e a trasferirsi, il ritardo nel conseguire il titolo per motivazioni diverse, e penso, per esempio, agli studenti lavoratori o agli studenti part time.
Signora Presidente, l’uso acritico di formule aritmetiche potrebbe portare alla chiusura in questo Paese di molti corsi a carattere specialistico, soprattutto nelle aree interne e marginali del Paese. Le faccio un esempio, che faccio anche ai colleghi: i corsi di laurea in geologia – non è un esempio a caso, dato che il nostro Paese soffre di un dissesto idrogeologico molto importante e poi dobbiamo intervenire per dare risposta ai danni, una volta che sono stati causati – in tutti gli atenei del sud non raggiungono la numerosità ottimale degli studenti.

Quindi, questi corsi di laurea ricevono dei finanziamenti inferiori ai costi reali. In altre parole, significa che questi corsi, per un ateneo del sud, sono un’operazione in perdita. Penso, invece, che sia suicida nel momento in cui noi andiamo a sopprimerli, perché non hanno sufficienti risorse per essere attivati (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

La risposta non è, come sostiene qualcuno, che questi corsi devono essere erogati solo negli atenei del nord ovviamente, perché questo significherebbe che noi diventiamo complici di quella desertificazione dei talenti dei giovani ma anche della desertificazione di quei luoghi che sono promotori di progresso, fatti dai centri di ricerca e dagli atenei. Semmai la proposta sarebbe quella di trovare, almeno in ambito regionale, le modalità per erogare un’offerta formativa che risponda ai bisogni di tutti e soprattutto dobbiamo intervenire, come ho cercato di dimostrare, anche nel ricalibrare queste formule matematiche per il riparto del finanziamento statale, in modo che sia un riparto equo oltre che sostenibile.

Io so bene di avere compiuto un errore perché mi sono messa a parlare davanti a un’Aula abbastanza già distratta di tecnicismi. Però, l’ho fatto volutamente, signora Presidente; l’ho fatto perché voglio che l’Aula si renda conto che quando noi parliamo di politiche universitarie parliamo di tecnicismi affidati, solitamente e sempre più spesso, a degli atti amministrativi – ho concluso – e voglio quindi invitare i colleghi a non fare l’errore di ritrarsi davanti ai tecnicismi, ma di riprendere in mano e di riappropriarsi della politica universitaria che non possiamo affidare soltanto agli atti amministrativi. Il motivo di questo è semplice: perché dobbiamo ricostruire insieme un sistema universitario che sia solidale, che sia smart, intelligente, esattamente come la società che vogliamo costruire per il futuro. Solo in questo modo noi potremo davvero avere un sistema universitario in grado di sfidare ciò che ci aspetta nel futuro. È per questo motivo che vi chiedo, colleghi, di approvare unitariamente la nostra mozione (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico)».