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Social musei: colmare il gap con personale e strumenti

#SOCIALMUSEUMS Social media e cultura, tra post e tweet è il titolo del corposo volume che dà conto del decimo rapporto del’Associazione Civita, curato da Luca De Biase, fondatore e caporedattore di Nòva supplemento del quotidiano Il Sole 24 Ore, e Pietro Antonio Valentino, vicepresidente del Comitato Scientifico di Civita, ed edito da Silvana Editoriale.

Il volume prende in esame il rapporto fra social media e mondo della cultura, un tema molto dibattuto sia in sede pubblica che privata e in un momento di profonda trasformazione che sta investendo i musei pubblici anche sul fronte del digitale.

Il rapporto è composto da due sezioni. Nella prima si dà conto delle indagini condotte dal Centro Studi “Gianfranco Imperatori” dell’Associazione Civita, che mostrano il modo in cui gli italiani si interfacciano online, e con quali aspettative, con il mondo della cultura, per consentire così  agli operatori culturali di disegnare strategie più consapevoli di comportamento;  nella seconda sezione si illustrano i diversi aspetti della comunicazione culturale “social” attraverso il punto di vista di alcuni fra i maggiori esperti italiani: dalla misurazione degli impatti delle campagne digitali alle modalità di crowdfunding per la cultura attraverso i canali social, fino agli effetti prodotti da questi ultimi nei settori del cinema, dell’editoria d’arte e dell’organizzazione di eventi e gestione di spazi culturali.

Va detto che, se in Italia sono 36,5 milioni (circa il 60%) gli italiani che utilizzano i social, un dato in sé assai inferiore alla media europea, quelli che ne fanno uso per interagire con istituzioni culturali sono solo 9 milioni, in prevalenza tra il 25 e i 44 anni e in prevalenza donne.

Analizzando i differenti utilizzi delle piattaforme social, i risultati della ricerca fanno emergere che  gli utenti impiegano i social soprattutto per la fruizione virtuale e per scaricare materiali messi a disposizione dalle organizzazioni culturali, mentre l’acquisizione di informazioni per la prenotazione o l’acquisto del biglietto d’ingresso sono nettamente sottoutilizzati. Rispetto alla semplice acquisizione o diffusione dei contenuti, la funzione creativa associata ai social media – la più specifica e caratterizzante – è ancora, in Italia, assolutamente marginale.

Definito un campione di musei (italiani e stranieri) rappresentativo delle differenti offerte culturali (Musei e Reti museali di arte antica e moderna, Musei e Centri per l’arte contemporanea, Musei della Scienza e Altre istituzioni), dal rapporto risulta un insieme di 26 istituti culturali da cui si sono tratti sia elementi positivi che eventuali limiti dello sfruttamento delle opportunità offerte dai social.

L’indagine mostra che l’utilizzo di tali strumenti come mezzo per entrare in relazione con i propri pubblici o per attrarre visitatori non costituisce ancora, per i nostri musei, un obiettivo strategico e rilevante, ad eccezione dei musei d’arte contemporanea, capaci, al contrario, di richiamare non solo i giovani (cosiddetti “nativi digitali”)  ma anche un pubblico più trasversale e meno assiduo.

Il rapporto sottolinea che tali difficoltà dipendono dalla scarsa conoscenza delle effettive potenzialità dei social, dovuta alla poca esperienza finora accumulata, nonché dalla difficoltà di associare una piattaforma a obiettivi specifici. Sono, pertanto, i social multifunzionali, quali Facebook, Twitter e Google+ (seguiti ad una certa distanza da Instagram, Pinterest e YouTube) quelli ritenuti più efficaci dai musei e utilizzati, in particolare, per stimolare la creazione di contenuti auto-creati (user generated content), favorire l’apprendimento e arricchire la fruizione o condividere i contenuti.

L’indagine dimostra poi con chiarezza che le nuove piattaforme sono quasi sempre implementate in stretta connessione con il sito web del museo; una scelta volta ad ottimizzare l’uso di tutti gli strumenti a disposizione dell’istituzione ma anche ad arricchire il sito potendo impiegare tutti i supporti di comunicazione (verbali o visivi) tramite l’uso di linguaggi differenti.

La parte finale del rapporto, ovvero le conclusioni, offrono indicazioni per recuperare il tempo perso e fare in modo che le istituzioni museali si pongano come soggetti dell’innovazione nell’utilizzo delle tecnologie social.

Secondo i curatori del rapporto tutto ciò può attuarsi se le istituzioni museali saranno in grado di accrescere il proprio ruolo identitario e valoriale, a garanzia della qualità della cultura trasmessa e a favore di una redistribuzione dell’accesso alla conoscenza, valutando pregi e difetti rispetto ai propri obiettivi anche e soprattutto interagendo con centri di ricerca e imprese innovative del settore.

Tutto questo però non potendo prescindere dal mettere in atto investimenti mirati sulle professionalità addette alla comunicazione museale (che dovrebbero essere in grado anche di usare linguaggi semplici e informali, ma giammai semplicistici e superficiali, da adottare nell’uso di tali canali).

Per far fronte ai costi di investimento e gestione necessari all’acquisizione di personale qualificato, una valida risorsa risiede nell’uso integrato di fondi nazionali comunitari (Agenda Digitale, Horizon 2020, Erasmus+, Industria Creativa ecc) nonché  la realizzazione di partenariati europei orientati al sostegno di progetti di innovazione tecnologica.

In quest’ottica, pertanto, si potrebbe prevedere per i musei più visitati, in genere statali, di destinare le entrate aggiuntive alla formazione di personale qualificato (almeno 3 o 4 unità), al fine di migliorare l’interazione “social” con il pubblico, o di attivare eventuali collaborazioni con le imprese operanti nella comunicazione, mentre per musei con minore affluenza, di incentivare una gestione a rete dei servizi dedicati alla comunicazione, riducendo, in tal modo, i costi di gestione per le singole istituzioni. Una soluzione, quest’ultima, sperimentata con successo da musei che fanno capo alla stessa proprietà (come i Musei in Comune a Roma) o localizzati sullo stesso territorio (come la Fondazione Musei Senesi).

Inoltre per i nostri musei, accogliere il modello relazionale (quello che negli Usa si definisce the participatory museum) significa anche  superare le forti riserve culturali legate a una visione in genere “conservatrice” e conservativa del proprio ruolo, vincendo le diffidenze di coloro che temono di sminuire le capacità conoscitive e formative della tradizionale museologia.