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La scuola italiana è uno dei pilastri di maggiore unità del nostro Paese, garanzia di eguaglianza e libertà, collante tra territori e tra generazioni, e non è pensabile che possa entrare in logiche tese a frammentarne il principio cardine: il diritto allo studio per tutti, con le stesse opportunità.

Infatti «non c’è ombra di dubbio che i padri costituenti affidassero alla scuola un compito primario di autoriconoscimento e unificazione. Dunque, chi voglia oggi attentare all’unità dello Stato italiano non può fare a meno di colpire l’unità della scuola», questa la lucida analisi del prof. Alberto Asor Rosa da tempo contrario alla proposta del ministro dell’istruzione Marco Bussetti di regionalizzare la scuola,  ripresa anche nel suo ultimo articolo L’UNITÀ DELLA SCUOLA, pubblicato dal quotidiano “la Repubblica” dello scorso venerdì 28 febbraio.

la Repubblica del 29 febbraio 2019
L’UNITÀ DELLA SCUOLA

Le Regioni differenziate spezzerebbero la spina dorsale del Paese dalla materna agli Atenei. Con quali effetti?

di Alberto Asor Rosa

Una caratteristica singolare del governo giallo-verde è di produrre deliberati, ognuno dei quali si presta a una serie infinita di obiezioni, di volta in volta più argomentate e agguerrite.

Un esempio evidente è la cosiddetta “autonomia regionale differenziata”. Da un solo provvedimento si potrebbero cavare cento ben ragionate obiezioni. Io vorrei attirare l’attenzione su un campo tematico forse meno discusso: e cioè la scuola.

Non c’è ombra di dubbio che la scuola, dalla materna all’Università, rappresenti, insieme con pochissime altre branche dello Stato, una delle strutture unitarie ancora funzionanti. È chiaro che “l’autonomia regionale differenziata” avrebbe lo scopo di spezzare questa spina dorsale del Paese, ridurla in briciole, sottometterla a interessi particolari di ogni genere. Ci si può chiedere quali sarebbero gli effetti, su tutti noi, ma soprattutto sui nostri giovani, e quindi sul futuro di questo Paese (se “questo Paese” significa ancora qualcosa qui da noi).

L’Italia ha conquistato l’unità da un tempo incredibilmente vicino a noi: poco più di 150 anni! In precedenza – quasi sei secoli di storia, dal tardo Medioevo – l’unità è stata cercata, testardamente e intensamente, soprattutto da letterati, filosofi e intellettuali, come unità culturale e linguistica.

Spinte centrifughe ce ne furono, come no: persino di natura linguistica e culturale. Ma la spinta unitaria prevalse sempre: alcuni dei teorici più lucidi dell’uso sempre più generalizzato e sistematico della lingua italiana furono veneti e lombardi; alcuni dei letterati e poeti più geniali della nostra storia letteraria sono stati emiliani, marchigiani e napoletani. Solo da un ce1to momento in poi le due spinte si sono saldate.

La ricerca dell’unità culturale e linguistica diviene ricerca, più consapevole e ferma, dell’unità politico-istituzionale, e non è azzardato dire che la seconda non si sarebbe manifestata e imposta senza la ricerca secolare della prima. Quando l’Italia fu riunita, dopo secoli di divisione, non c’è ombra di dubbio che i padri costituenti affidassero alla scuola un compito primario di autoriconoscimento e unificazione.

Dunque, chi voglia oggi attentare all’unità dello Stato italiano non può fare a meno di colpire l’unità della scuola.

E però: c’è un’alternativa? Il punto è proprio questo: non c’è un’alternativa; ma solo un precipizio mentale, in cui non resterebbe che farsi inghiottire dalla mancanza di cultura e di lingua. Non c’è una cultura ligure, veneta, marchigiana, laziale, campana, calabrese da sostituire alla “cultura nazionale italiana”. Se si vuole parlare al resto dell’Europa e del mondo, bisogna paitire da questa lingua, e 1ipa1tire, per quanti utili sforzi di rinnovamento si facciano, da questa cultura.

Si capisce che i riformatori – “sovranisti” anche a livello regionale, per colmo di paradosso – sarebbero indifferenti a questo discorso. Più esattamente: ne ignorano anche i dati più elementari (cultura? lingua? puah, che roba sorpassata!). Ma qui bisogna tentare di parlare al resto del Paese: quello che sarebbe vittima sacrificale – anche se talvolta inconsapevolmente consenziente – dell’operazione che si sta progettando. Perché l’Italia e gli italiani non si 1itrovino in quel precipizio bisogna che la scuola resti unitaria, anzi accentui sempre di più e meglio questa funzione.

Semmai sarebbe da chiedersi perché, già prima di arrivare alla “autonomia regionale differenziata”, la scuola sia stata considerata da tutti i governi di tutti i colori negli ultimi decenni un secondario motivo d’interesse nazionale, un bene rifugio per ministri d’infimo grado. Dovrebbe esser chiaro: ci si oppone seriamente alla prospettiva catastrofica solo se si considera la prospettiva scolastica nazionale una delle chance fondamentali della nostra politica.

L’identità culturale e linguistica non è un patrimonio che si autoconserva. Ha bisogno di un investimento politico e culturale (insisto: culturale) di altissimo livello. Ma così stiamo andando troppo lontano.

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Alberto Asor Rosa è stato professore di Letteratura italiana alla Sapienza di Roma militante politico e intellettuale. Tra i suoi libri “Il grande silenzio” (Laterza. 2009) e “Machiavelli e l’Italia. Resoconto di una disfatta”(Einaudi, 2019)