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Magatti: Il vecchio sta crollando e il nuovo non si vede

«La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati», scriveva Antonio Gramsci nei Quaderni dal carcere. Parte da questa riflessione, per molti versi senza tempo, l’ultimo articolo del sociologo Mauro Magatti “Il vecchio sta crollando e il nuovo non si vede”, pubblicato domenica 7 ottobre sul Corriere della Sera. “La partita si gioca sull’idea di futuro – ci dice Magatti, anche se – “… si parla troppo poco delle condizioni necessarie per realizzare un modello di crescita più sensato, inclusivo e desiderabile”.

CORRIERE DELLA SERA

Il vecchio sta crollando e il nuovo non si vede

Mauro Magatti

Nei Quaderni del carcere Antonio Gramsci scrive: «Il vecchio muore […] il nuovo non può nascere e si verificano i fenomeni morbosi più svariati». Una descrizione che calza perfettamente con la situazione nella quale ci troviamo. Il «governo del cambiamento» vorrebbe marcare ogni giorno la discontinuità con tutto ciò che lo ha preceduto. Ma, come si dice, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Tra le righe della Finanziaria che il Parlamento si appresta a discutere, affiora un messaggio contraddittorio: la modernizzazione che scarica costi troppo alti sulla vita della gente comune non ci piace e tuttavia ne vogliamo i benefici (che poi, in ultima istanza, sono il benessere). Ed è proprio da questa ambivalenza di fondo che derivano i rischi (e gli ondeggiamenti) a cui il Paese viene esposto.

Il governo dice: la povertà si può eliminare facilmente; basta aumentare il debito. E così addio lotta all’evasione, agli sperperi, alle ingiustizie. Addio sforzi per innalzare la competitività del sistema Italia e alla valorizzazione del lavoro; addio ad un impegno vero per cambiare le regole del gioco a livello internazionale. Che poi viene da pensare: ma se era così facile, perché non lo abbiamo fatto prima? La stessa logica ritorna a proposito delle migrazioni. Anche qui la soluzione è elementare: per azzerare gli ingressi basta chiudere i porti. E poco importa se una chiusura ermetica ci isola di fatto dalla comunità internazionale a cui peraltro vogliamo e dobbiamo continuare ad appartenere. Una sorta di immaturità di fondo — che in forme diverse affiora sia nella Lega che nel M5S — che rischia di trascinarci dove non vorremmo. Fragile come è, l’Italia è vicinissima a ritrovarsi nell’occhio del ciclone, vero e proprio casus belli di una crisi che, investendo l’Europa, diventerebbe globale.

Implicitamente, la citazione di Gramsci ci avverte però anche di un’altra cosa. La tragedia della storia si ripete sempre con lo stesso copione. Ci sono momenti in cui il vecchio crolla e occorre affrettarsi a costruire il nuovo. Anche se in genere sono le classi dirigenti a tardare nel cambiare paradigma. Con la testa e il portafoglio troppo attaccate al mondo che conoscono e che hanno contribuito a costruire. Così, non c’è da stupirsi se le preoccupazioni (in buona parte condivisibili) sollevate da più parti non riescono a scalfire l’opinione pubblica. Il richiamo al realismo è sacrosanto. Viviamo in un sistema globale e non tenerne conto («noi non temiamo i mercati» come ha detto Di Maio qualche giorno fa) è pericoloso. Ma il realismo non può ridursi alla presa d’atto di una realtà che pure ha tante cose che non vanno e che vanno cambiate. Quasi a dire che si stava meglio quando si stava peggio e che per l’Italia non c’è altra via che accettare il fardello della sottomissione a poteri che non controlla. Insistere su questi toni finisce per essere addirittura controproducente. Questo vale in modo particolare per l’opposizione, nelle cui file ci sono ex ministri e buona parte del gotha politico-istituzionale degli ultimi anni.

Nella situazione in cui siamo la mera difesa dell’ordine costituito condanna l’opposizione alla irrilevanza. L’unica strada è prendere atto che il vecchio sta davvero crollando. In Italia, come in Europa, la partita si gioca sull’idea di futuro. Questo è il punto. Se ammettiamo che, al di là delle cose buone che pure sono state fatte, il passato non è più di tanto difendibile — a dieci anni di distanza il Pil pro capite non è ancora tornato ai livelli pre crisi mentre il debito in dieci anni è passato dal 105 al 132 per cento — è sul futuro che occorre concentrarsi. Non è che gli italiani non vogliano fare più sacrifici. È che sono stufi di farli senza vedere mai i risultati. Si parla troppo poco delle condizioni necessarie per realizzare un modello di crescita più sensato, inclusivo e desiderabile (ne esiste uno capace di fondarsi sul principio della sostenibilità integrale?). E ancora meno si ha il coraggio di prendere una posizione chiara sull’identità della Europa che ci aspetta (dopo la moneta, quali ambiti di sovranità vanno messi in comune e quali nuovi assetti istituzionali è necessario costruire per poter gestire politicamente l’Unione?).

Su entrambi questi fronti (crescita ed Europa) siamo al punto in cui o si va avanti o si va indietro. Fermi in mezzo al guado non si può più stare. Proprio per questo, che ci piaccia o no, in questo cambio d’epoca, dopo il 4 marzo l’Italia — un grande Paese con alcune gravi fragilità che devono essere risolte — si ritrova a un crocevia della storia. Niente tornerà più come prima. Occorre allora lavorare perché il processo messo in moto dal governo gialloverde — in certo modo irreversibile — non sia distruttivo. L’Italia può diventare un punto di rottura drammatico; oppure essere occasione per l’avvio di un processo virtuoso di innovazione economica e istituzionale. È questa la vera posta in gioco nelle convulsioni che investono il nostro Paese. Ed è per vincere questa posta che occorre non smettere di lavorare.