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PATRIMONIO CULTURALE TRA PAESAGGIO E AGRICOLTURA

In Commissione Cultura alla Camera sempre più spesso ci troviamo ad affrontare questi temi.
Per questo riporto qui alcune delle riflessioni che guidano il nostro lavoro, sottolineando alcuni aspetti più problematici di quanto si è fatto sino ad ora.
Quando si dice che oggi più che mai necessario parlare di paesaggio, si misura la distanza che divide i princìpi di difesa e tutela del territorio, consacrati nella nostra Costituzione, dal degrado civile di cui è spesso oggetto lo spazio che abitiamo.
Tale degrado non investe solo le forme del paesaggio e dell’ambiente, ma è espressione di un più vasto declino delle regole del vivere civile, su cui si fonda, invece, il patto – giuridico, ma prima ancora etico e identitario – alla base di una comunità e del suo tessuto sociale.


Un tuffo indietro nella storia nazionale ci ricorda che l’Italia che emerge con chiarezza nel censimento del 1951 è ancora rurale e contadina. Nonostante la grande espansione delle città compiuta in quell’ultimo mezzo secolo, il perno della vita sociale rimanevano le piccole città, i borghi di provincia: le donne impiegate nell’agricoltura erano ancora la netta maggioranza.
All’aprirsi degli anni Cinquanta, si assiste ad una forte spinta verso l’urbanizzazione, verso la città, verso la libertà di scegliere comportamenti individuali, autonomi, tipici della nascente Italia borghese.
La rottura dell’Italia rurale – e molti sono i passaggi più rilevanti della storia mondiale annidati in una frattura e nell’improvvisa discontinuità da questa segnata – è un dato di grande importanza perché, giova ricordarlo, senza quella rottura, i princìpi della Costituzione italiana sarebbero stati difficilmente applicabili a una buona metà della popolazione del Paese: se non si fosse infranta l’idea di una domesticità separata dalla sfera pubblica, le donne non sarebbero emerse come individualità.
E’per quel tramite che i valori costituzionali della nostra democrazia repubblicana sono stati avvertiti come propri dalle italiane.
Crescita e sviluppo sono parole largamente utilizzate dalla politica e dagli economisti, bisogna però intendersi sul loro significato. Perché il vero problema oggi – in un contesto globale – non è più quanto si cresce, ma come. È chiaro a tanti che lo sviluppo quantitativo delle società a economia matura non può reggere senza un adeguato investimento in termini qualitativi.
Superare la logica quantitativa è un impegno ineludibile e in questo le politiche culturali possono giocare un ruolo di primissimo piano. Ormai superata l’idea del patrimonio artistico come paradigma unico e totalizzante della cultura, occorre ora – a circa dieci anni dall’inizio della crisi – prendere atto dei cambiamenti strutturali intervenuti nelle economie e società dei Paesi avanzati.
Come suggerisce Mauro Magatti, alla luce dei persistenti trend d’invecchiamento della popolazione e all’avanzata delle diseguaglianze, è indispensabile costruire una formula di scambio sociale, basata sulla partecipazione attiva alla creazione di valore. Compito primario della politica dev’essere, pertanto, quello di definire priorità e obiettivi comuni, riconoscendo e premiando la contribuzione dei singoli, delle imprese, delle comunità.
Un’idea, questa, che richiama la “Comunità di eredità” della Convenzione di Faro, che in Commissione consideriamo un punto fondamentale per la nostra riflessione.
Il codice dei beni culturali e del paesaggio ci ricorda che il patrimonio culturale è formato dai beni culturali e dai beni paesaggistici e nella parte terza, in osservanza alla Convenzione Europea del Paesaggio, Firenze 2000, definisce paesaggio come il territorio espressivo di identità il cui carattere deriva dall’ azione di fattori naturali e umani e dalle loro interrelazioni.
Dunque il paesaggio è bene culturale a tutti gli effetti e come ricordato anche al recente G7 contribuisce, con il suo ruolo, a preservare l’identità e la memoria dei popoli.
Il riferimento al paesaggio agrario impone comunque una ulteriore riflessione.
Il paesaggio agrario, come dicevamo prima, è sicuramente quello che per lungo tempo ha caratterizzato il nostro Paese, è ricco di tradizioni, è espressione di saper fare tramandati da generazione in generazione, è quel luogo quasi familiare che riporta ognuno alle origini.
Il paesaggio agrario è anche però una categoria a rischio di perdita di identità, le ragioni sono molte e tutte ben note: l’allargarsi dei confini delle periferie che con la loro dispersione invadono i terreni, la perdita del lavoro nelle campagne e il conseguente abbandono dei campi coltivati ma anche la realizzazione, nelle campagne stesse, di attività non compatibili con i valori di cui sono espressione, una perdita di senso che è stata valutata importante in questi ultimi anni. Il paesaggio agrario è diventato da elemento determinante per l’aspetto del Paese un elemento a rischio di estinzione.
Quando uno spazio viene abbandonato o distrutto, si crea intorno degrado. È ciò che dobbiamo evitare. Per farlo, sono necessarie politiche lungimiranti, che non mirino a ritorni immediati, ma siano in grado di progettare il futuro a partire dal presente.
Conservare, valorizzare, promuovere, investire in una politica di programmazione sono alcuni dei nodi cruciali di cui parlare.