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Un manifesto per il patrimonio al futuro

Ieri sera sono intervenuta al Festival “Il libro possibile”, a Polignano a Mare, alla presentazione del libro “Patrimonio al futuro. Un manifesto per i beni culturali e il paesaggio” (ed.Mondadori Electa), di Giuliano Volpe, presidente del Consiglio Superiore Beni Culturali e Paesaggistici.

Nel momento in cui Volpe scrive, il libro è del 2015, si è avviata solo la prima parte della riforma, quella che ha previsto l’accorpamento delle Soprintendenze belle arti e architettura e paesaggio; infatti l’autore auspica che la riforma si completi unificando anche le soprintendenze archeologiche, cosa che accaduta nel gennaio 2016 con la creazione della soprintendenza unica archeologica, belle arti e paesaggio.

Nell’introduzione il professor Volpe spiega il percorso che l’ha portato oggi ad essere il presidente del Consiglio Superiore per i beni culturali e paesaggistici del MiBACT. Il Consiglio superiore per i beni culturali e paesaggistici è per Volpe un luogo di osservazione privilegiato per comprendere l’intero sistema culturale del Paese. E nell’appendice riporta i documenti conclusivi su due questioni che si è trovato a risolvere come presidente del Consiglio Superiore: la richiesta dei Bronzi di Riace per expo e lo studio del piano strategico per l’area archeologica centrale di Roma. Lo fa perché – e lo dice – sono stati per lui occasioni particolari di riflessione. Lo sono anche per noi.

Il libro è scritto in maniera chiara e molto gradevole ed è rivolto agli addetti ai lavori ma anche a chi segue per interesse personale il ruolo che i beni culturali hanno nel nostro Paese.

E’ un libro scritto da un professore universitario, che porta la visione del mondo della ricerca all’interno di questo tema. Per molti anni il legame tra MIUR e MiBACT, pur così necessario fra università, ricerca e beni culturali è stato un auspicio piuttosto che una realtà consolidata. E lo si è pagato. Oggi il tentativo è davvero quello di farli lavorare insieme, e questo rende il libro particolarmente interessante.

È l’obiettivo che ci siamo dati in Commissione cultura della Camera, quello di tenere insieme questi due mondi perché siamo convinti che si vivificano reciprocamente e perché l’uno non può fare a meno dell’altro.

È un libro coraggioso e controcorrente perché dice cose impopolari: chiarisce che la nostra cultura dei beni culturali è diventata una cultura di elite. Che si è rotto il rapporto tra il cittadino e il suo patrimonio, che i cultori della materia si sono arroccati spesso nell’elogio del tempo passato, bloccando fittiziamente il lavoro che il ministero deve fare. Non si è tenuto conto che il patrimonio culturale è una realtà viva che ha caratteristiche molto particolari nel nostro Paese, di cui occorre tener conto in un’epoca di grandi cambiamenti come questi.

Ma il libro chiarisce anche che il personale del ministero non è stato sufficientemente coinvolto nel cambiamento avviato con la riforma ed è disorientato; ci dice anche che la riforma ha precipitato delle scelte che avrebbero dovuto richiedere tempi di applicazione più dilazionati. E dice questo da convinto sostenitore della necessità della riforma.

Il libro comprende 32 brevi saggi, scritti in occasioni diverse, che vanno da un’analisi dei beni culturali, alla riforma del ministro Dario Franceschini, alle soprintendenze uniche, a quello che chiama perdita di memoria sociale, fino alla visione “olistica” che oggi viene finalmente proposta, fino ad offrire proposte per la formazione dei funzionari.

Sinteticamente potremmo dire: contro una concezione elitaria della cultura dei beni culturali, per una pianificazione territoriale che tenga conto delle specificità del nostro patrimonio e del nostro territorio, per la partecipazione dei cittadini e in favore di un’alleanza degli “innovatori”.

  • L’autore si chiede quale può essere il ruolo dei beni culturali in questo momento di crisi di valori che l’Europa e il mondo stanno vivendo.

Quale nuovo ruolo potrebbero immaginare per sé gli specialisti dei beni culturali se uscissero da una visione elitaria del patrimonio e stimassero di primaria importanza recuperare il rapporto fra il patrimonio culturale e i cittadini. Temi che affronta diffusamente nei saggi proposti.

Per farlo ricostruisce la storia della Commissione Franceschini che nel 1967, operò denunciando l’estrema precarietà in cui si trovava il patrimonio culturale del paese. E segue le vicende dei beni culturali fino alla creazione nel 1974 per volere di Spadolini e Moro del Ministero per i beni culturali e ambientali, ministero che nasceva povero tanto che all’epoca Sabino Cassese lo aveva definito una scatola vuota.

Oggi la sua analisi riparte dalla Riforma proposta e attuata dal ministro Franceschini che ha, per Volpe, il merito di portare in sé una visione strategica ben definita.

 

  • Ma la domanda rimane: a cinquant’anni dalla Commissione Franceschini, a quaranta dall’istituzione del Ministero, si possono usare ancora le stesse categorie e gli stessi modelli organizzativi? Volpe la risposta la trova ricordando che è lo stesso concetto di patrimonio culturale ad essere profondamente cambiato: si è estesa la qualifica di bene culturale tanto da comprendere ormai stabilmente il paesaggio in senso totale sino ai beni culturali immateriali.

Una visione settoriale, puntiforme come quella che emerge dalle leggi di tutela del ’39, che pure sono state le leggi base per la tutela del patrimonio culturale sino al testo Unico del 1999, non può più essere valida oggi. Inoltre le leggi del’39 puntavano essenzialmente alla tutela statica del bene non dando luogo ad una necessaria tutela attiva; unico strumento il vincolo. Dunque c’è oggi necessità di nuovi strumenti e di una nuova visione che sia coerente con il carattere odierno del patrimonio culturale.

 

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La presidente Flavia Piccoli Nardelli e il professor Giuliano Volpe al Festival del Libro Possibile a Polignano a Mare (7 luglio 2016)

 

 

 

 

Per curare i mali che affliggono il patrimonio l’autore suggerisce di guardare in modo nuovo proprio all’oggetto di tutela e valorizzazione. Occorre, a suo avviso, ricominciare a considerare il patrimonio culturale in senso “olistico” ovvero integrato. Il patrimonio storico artistico, quello archeologico, architettonico, etnoantropologico e paesaggistico non sono delle categorie separate oggetto degli specialisti ma sono i componenti di un patrimonio unico. A questa consapevolezza deve seguire una visione globale anche dell’attività di tutela e di valorizzazione con un ripensamento delle strutture che se ne occupano.

Questo spiega la riorganizzazione del Ministero con strutture periferiche uniche a base territoriale, dotate di competenze multidisciplinari e organizzate in equipe miste.

 

  • Volpe nel suo libro parla di paesaggio come dell’elemento centrale per il nostro patrimonio e cita un bellissimo testo di Salvatore Settis. Un paesaggio da intendere come sistema complesso di relazioni, un palinsesto in cui sono nascoste e intrecciate le tracce millenarie del rapporto fra l’uomo e la natura. Il paesaggio diventa luogo di ricomposizione di percorsi di ricerca differenziati e dimostra dell’importanza dell’approccio globale al patrimonio.

Ma l’autore fa un’altra citazione importante quando parte da una considerazione di Andrea Carandini per riflettere sulla perdita di memoria collettiva che sembra affliggere la società italiana.

E propone come antidoto l’investimento in cultura e formazione, nella cura e valorizzazione del patrimonio culturale e più in generale delle città, nell’abbandono della visione elitaria, nella riscoperta da parte dei cittadini della memoria sociale.

  • Riprendendo la questione della riorganizzazione del Mibact ne mette in luce novità interessanti e importanti.

L’eliminazione delle Direzioni Regionali in favore dei Segretariati Regionali, che sono strutture di coordinamento, rappresentano una semplificazione funzionale della linea di comando fra centro e periferia.

 

  • Altra novità importante è rappresentata dalla creazione dei Poli museali regionali, accanto alla creazione dei grandi musei. Volpe riporta le critiche che sono state mosse a questa nuova organizzazione accusata di operare una presunta separazione dei musei dai territori.

[ È su questo punto che Volpe fa anche una serie di osservazioni critiche molto importanti. La riforma per diventare efficace deve essere sostenuta anche dai funzionari del Mibact. Molto, sostiene Volpe, dipenderà dalla sua applicazione, dalla possibilità di superare non solo le resistenze esterne ma anche quelle interne.Quindi occorre coinvolgere il personale, spesso sfiduciato, stanco, demotivato e frastornato dalle continue riforme che generano incertezza. Come bisogna curare di più la periferia del Ministero che poi è quella in prima linea. ]

Tra le nuove Direzioni create dalla Riforma l’autore ritiene di particolare interesse la Direzione Generale arte e architettura contemporanee e periferie urbane e in particolare quella dell’Educazione e Ricerca. Quest’ultima è una grande novità che potrà recupera il fondamentale rapporto fra Mibact e Miur anche con l’intento di attivare collaborazioni sistematiche.

Il prof. Volpe immagina studenti che nella loro formazione possano alternare le lezioni in aula, con lo studio in biblioteca, con il lavoro nei laboratori di diagnostica e di restauro. Studenti che possano mettere in pratica quanto imparato in stage presso musei, biblioteche, archivi o in cantieri di restauro, per sperimentare sul campo e testare la propria formazione. Dall’altra parte l’idea è di avere avremo funzionari delle soprintendenze che tengono lezioni nelle aule, che collaborino alle ricerche universitarie, anche con il fine di creare banche dati uniche, e professori universitari che collaborano attivamente con le Soprintendenze. Insomma Volpe auspica un ricongiungimento di una categoria che è stata separata con la creazione nel 1975 del Ministero ma che sino ad allora era connessa al mondo dell’istruzione e della ricerca.

Una formazione da rivedere lauree, specializzazioni, dottorati e la scuola Nazionale del Patrimonio: sempre riflettendo nell’ambito della didattica e della ricerca universitaria, Volpe si sofferma sull’eccessiva produzione di corsi universitari in questi anni che hanno ad oggetto i beni culturali e il successivo abbandono di questi da parte degli studenti. A suo avviso sarebbe necessaria una revisione totale del terzo livello ovvero del post lauream.

L’idea è quella di creare una Scuola Nazionale del Patrimonio gestita congiuntamente da MIUR E MiBACT, la cui proposta era già presente nella commissione D’Alberti (voluta dal Ministro Massimo Bray). A questa scuola si accederebbe per concorso a seguito dell’avvenuta specializzazione o del dottorato di ricerca. Chi poi una volta vinto il concorso e terminata la scuola farebbe parte di una lista da cui le Soprintendenze attingono direttamente personale. Questo eliminerebbe la prassi dei mega concorsi banditi ogni 10- 20 anni con migliaia di candidati.

Il conflitto d’interessi un problema italiano, riflette sul rapporto spesso atipico del funzionario con il bene tutelato, seguito spesso del lavoro pluriennale svolto su alcuni oggetti.

Riflette sul rapporto pubblico privato che a suo avviso è un falso problema e fra l’alternativa tra mecenatismo e sponsorizzazione.

Conclude riflettendo che gli strumenti del mecenatismo e della sponsorizzazione sono necessari per uno Stato che da solo non può sostenere un patrimonio così diffuso.

Sono iniziative che ci permettono di riflettere su nuove possibilità anche di lavoro per figure professionali che sembravano destinate esclusivamente alla tutela o alla ricerca.

“La promozione dello sviluppo della cultura non è sinonimo di valorizzazione?”: riflessione sull’articolo 9 della Costituzione. Parlare di valorizzazione vuol dire affrontare il tema del rapporto dei cittadini con il patrimonio.

Altro punto fondamentale :il campo della comunicazione che registra nel nostro Paese un grave ritardo. La Comunicazione non andrebbe intesa, dice Volpe, come una concessione fatta dalle “vestali” della cultura, ma come un’azione necessaria e pienamente coerente con il significato reale della tutela e della valorizzazione.

La nostra incapacità comunicativa nei beni culturali, continua il professore, è frutto di un grave ritardo che si basa anche sulla convinzione, di chi se ne dovrebbe occupare, della inferiorità dell’aspetto comunicativo rispetto a quello della ricerca. Mentre è proprio attraverso la comunicazione che si sviluppa la democratizzazione della cultura e si interrompe il circolo vizioso che porta i cittadini lontani da musei, aree archeologiche e complessi monumentali.

Contro una concezione elitaria della cultura: Riporta le parole di Ranuccio Bianchi Bandinelli che già nei primi anni Settanta affermava l’importanza dell’opera di divulgazione che svincoli la cultura dall’élite ristretta nella quale si trova costretta e che la renda accessibile al più vasto pubblico possibile. Si interroga se questa cattiva comunicazione e diffusione dei contenuti della cultura non sia la causa prima del fastidio che ampi strati di popolazione hanno nei riguardi delle operazioni di tutela che sono considerate spesso inutili, costose e inefficaci.

Quale comunicazione? aprire gli accessi, liberare i dati; Libertà di fotografare i beni culturali: una rivoluzione: Volpe si interroga su quale comunicazione attivare nei beni culturali e auspica che sia una comunicazione di tipo globale. Ovvero una comunicazione capace di comunicare la complessità del patrimonio culturale in tutte le sue articolazioni anche attraverso l’indagine e l’analisi dei paesaggi stratificati che sono una chiave di lettura strategica.

Ricostruzioni grafiche, tecnologie multimediali, prodotti multimediali e altro.

Si sofferma sulla innovazione introdotta dal decreto art bonus sulla libera riproduzione dei beni culturali che secondo il professore è importante anche per riaffermare la proprietà dei beni culturali dei cittadini. si professa contrario alla restrizione attuata per archivi e biblioteche. Un divieto che giudica figlio di un idea sbagliata e che non è commisurato alle questioni di tutela ma piuttosto alle necessità economiche di archivi e biblioteche.

Il racconto del patrimonio culturale è una cosa importante: la vera forza della comunicazione consiste nella capacità del racconto che citando Carandini “ compito dello studioso che voglia essere anche un narratore è quello di rendere semplice ciò che è complesso, continuo ciò che è lacunoso, completo ciò che è parziale”.

Importanti sono anche le coperture archeologiche che possono abilmente collaborare alla comprensione delle aree archeologiche.