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Non rinunciamo al futuro, investiamo in istruzione e competenze

Nei giorni scorsi abbiamo cominciato a discutere il DEF che contiene le indicazioni sulle politiche economiche e finanziarie che l’esecutivo metterà in atto nei prossimi mesi. Una sorta di dichiarazione di intenti che descrive la prospettiva del governo su temi cruciali. Mi sembra importante che nel prossimo futuro- si continui sulla strada tracciata per quel che concerne gli investimenti in formazione e capitale umano.

Credo, infatti, che le risposte immaginate non debbano limitarsi al “qui e ora” ma indicare anche una visione per il futuro che è indispensabile per lo sviluppo e la crescita del Paese. La sfida sarà quella di adeguare le competenze di studenti e lavoratori ai cambiamenti imposti dalla rivoluzione tecnologica.

Gli studi, nazionali e internazionali più accreditati evidenziano che le dieci professioni oggi più richieste dal mercato del lavoro non esistevano fino a dieci anni fa, che quasi la metà dei lavori sono destinati a essere automatizzati nei prossimi 10-20 anni; che il 65% dei bambini che oggi inizia la scuola elementare farà da adulto un lavoro che oggi nemmeno esiste. Purtroppo, molte indagini e rapporti certificano che il nostro Paese non è preparato a questi cambiamenti epocali: siamo il secondo paese più vecchio al mondo e abbiamo un tasso di giovani che non studiano e non lavorano tra i più alti d’Europa. Una delle ragioni di questo dato risiede nella difficoltà della nostra scuola di intercettare le richieste del mondo del lavoro: parlo di curricula -nella maggior parte dei casi- poco compatibili con le esigenze di aziende e imprese. Abbiamo tentato in questi anni di dare il via a un nuovo processo. Penso, per esempio, alla sperimentazione del sistema duale, agli incentivi per la formazione industria 4.0, all’investimento sugli istituti tecnici e professionali, al piano nazionale per la scuola digitale, all’alternanza scuola-lavoro.

Oggi sarebbe un delitto non investire nelle imprese che innovano e che portano avanti difficili processi di riconversione oppure non sostenere una nuova filiera scolastica “professionalizzante”, rilanciando a livello secondario l’istruzione tecnica e professionale e, a livello terziario, potenziare gli Its, che dovrebbero diventare il canale formativo “privilegiato” per il settore industriale.

Quella dell’istruzione, delle competenze è l’unica strada anche per superare un gap drammatico legato alla mobilità sociale. L’Ocse, infatti, ha verificato che in Italia sono necessarie cinque generazioni perché un bambino nato in una famiglia a basso reddito (tra il 10% più povero della popolazione) raggiunga il reddito medio nazionale.

E’ del tutto evidente come la crescita e lo sviluppo del Paese passino attraverso investimenti in istruzione e innovazione. In questo senso, i primi atti del governo lasciano presagire scenari preoccupanti: la rinuncia alla chiamata per competenze, infatti, rappresenta il primo passo di un processo con cui si torna a guardare al passato. Come definire, altrimenti, la scelta di togliere ai docenti l’opportunità di scegliere la scuola dove insegnare? Sono convinta che sia indispensabile sostenere una scuola che si fondi sul merito e sulla valorizzazione delle competenze, guardando a un mondo che corre in modo straordinariamente veloce e che chiede agli studenti di essere sempre più formati e aggiornati.

Non rinunciamo al futuro.